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Capitolo VII

"Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia;
e un de' due specialmente, tenendo una mano in aria,
con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca
ancora aperta, squadrò Renzo da capo a piedi;
poi diede d'occhio al compagno, poi a quel dell'uscio,
che rispose con un cenno del capo.
Renzo insospettito e incerto guardava
ai suoi due convitati..."

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I Promessi Sposi
 · 1 Apr 2018
R. Guttuso, I bravi all'osteria
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R. Guttuso, I bravi all'osteria

Personaggi: Padre Cristoforo, Renzo, Lucia, Agnese, Tonio, Gervaso, Perpetua, don Rodrigo, il conte Attilio, il Griso, Menico, i bravi, l'oste

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, il palazzo di don Rodrigo

Tempo: 9 novembre 1628, sera - 10 novembre 1628, da mattina a sera

Temi: La carestia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: Padre Cristoforo riferisce ai due promessi l'esito del colloquio con don Rodrigo, poi dice loro di confidare in un aiuto. Renzo convince Lucia a tentare il "matrimonio a sorpresa". Il giorno dopo Agnese manda Menico al convento, poi il Griso travestito da mendicante si introduce a casa delle due donne. Don Rodrigo parla col conte Attilio, poi incarica il Griso di rapire Lucia. Renzo, Tonio e Gervaso vanno all'osteria, dove ci sono i bravi. Renzo e tutti gli altri vanno alla casa del curato.

F. Gonin, L'arrivo del frate
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F. Gonin, L'arrivo del frate

Padre Cristoforo parla con Renzo e le due donne

Padre Cristoforo riferisce a Renzo, Lucia e Agnese l'infelice esito del suo colloquio con don Rodrigo, invitando tuttavia a confidare nella Provvidenza che, afferma, ha già dato segno del suo aiuto. Renzo è in collera e domanda quali giustificazioni abbia dato il signorotto per il suo comportamento, al che il frate ribatte che le sue parole hanno poco significato, poiché il nobile non intende rinunciare alla sua prepotenza e, del resto, non ha certo ammesso di voler esercitare un sopruso ai danni di Lucia. Il cappuccino ribadisce quindi di nutrire una debole speranza e raccomanda a Renzo di venire da lui al convento il giorno dopo (dove attenderà il servitore di don Rodrigo), o di mandare qualcun altro se il giovane non potesse, raccomandando di avere pazienza e di attendere pochi giorni senza compiere colpi di testa. Alla fine il frate se ne va affrettando il passo per giungere al convento prima di notte, al fine di non incorrere in qualche penitenza che gli impedisca il giorno seguente di essere pronto al bisogno.


F. Gonin, Lucia supplica Renzo
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F. Gonin, Lucia supplica Renzo

Renzo convince Lucia a tentare lo stratagemma

Appena il frate è uscito, Lucia afferma che le sue parole devono indurre ad aver fiducia nell'aiuto divino, anche se Agnese non è molto convinta e Renzo, fuori di sé dalla rabbia, torna a proferire minacce contro don Rodrigo. Le due donne tentano di farlo ragionare, ma il giovane (che forse accentua la sua reazione per indurre Lucia a acconsentire allo stratagemma) non vuol sentire ragioni e si dice determinato ad uccidere il signorotto, incurante delle conseguenze (forse sarà imprigionato o ucciso, ma almeno, dice, impedirà a don Rodrigo di mettere le mani sulla sua promessa sposa). Agnese tenta inutilmente di calmare Renzo e Lucia piange e lo supplica di rinsavire, poiché lei non si è certo promessa a un assassino o a un poco di buono: alla fine gli si inginocchia di fronte e, per placarlo, promette che verrà dal curato per tentare il "matrimonio a sorpresa", al che finalmente Renzo sembra acquietarsi. Il giovane promette a sua volta che non farà niente di avventato, dunque (dopo aver preso gli accordi necessari) Renzo lascia a malincuore la casa delle due donne, le quali poi trascorrono come lui una notte alquanto agitata e inquieta.

F. Gonin, Il Griso travestito
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F. Gonin, Il Griso travestito

Agnese manda Menico al convento. Il "mendicante" e le altre spie


Il mattino dopo Renzo torna di buon'ora a casa delle due donne, per definire gli ultimi dettagli in vista dello stratagemma che attueranno la sera. Agnese chiede a Renzo se andrà al convento da padre Cristoforo, ma il giovane rifiuta in quanto teme che il cappuccino potrebbe intuire cosa stanno macchinando, quindi la donna decide di mandare là Menico, un ragazzo di circa dodici anni imparentato con lei. Agnese va a casa del ragazzo e gli promette due monete d'argento se andrà a Pescarenico a sentire cos'ha da dire il frate, per poi tornare da loro a riferirglielo, al che Menico promette che svolgerà la commissione in modo giudizioso.
Nel resto della mattina avvengono alcuni strani fatti che mettono in agitazione Lucia e Agnese. Prima un bizzarro mendicante entra a casa loro per chiedere del pane, non sembrando tuttavia così male in arnese come sono di solito gli accattoni, e una volta ricevuta l'elemosina si trattiene in casa con pretesti, guardandosi intorno con occhi curiosi. Nelle ore successive, sino a mezzogiorno, altri strani figuri passano davanti alla casa e sembrano guardare in modo altrettanto sospetto, finché quella processione ha finalmente termine. La cosa è accolta con sollievo dalle due donne, che pure sentono crescere l'inquietudine per ciò che è successo e sembrano aver perso quel poco di coraggio che hanno in serbo per lo stratagemma della sera.

F. Gonin, Antenato di don Rodrigo
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F. Gonin, Antenato di don Rodrigo

La passeggiata di Don Rodrigo. Colloquio col conte Attilio

L'autore a questo punto interrompe la narrazione e torna al giorno prima, al momento in cui padre Cristoforo ha lasciato don Rodrigo nel suo palazzo, intento a percorrere a passi rabbiosi la sala dove si è svolto il colloquio. Alle pareti sono appesi ritratti di suoi antenati, davanti ai quali il signorotto si ritrova andando avanti e indietro nella stanza: si tratta di un guerriero bardato di tutto punto con l'armatura e un volto che ispira terrore ai nemici, di un magistrato famoso per incutere timore in tribunale e che indossa la toga e l'ermellino (insegna dei senatori), di una nobildonna temuta dalle sue cameriere, di un abate temuto dai suoi monaci. La vista di questi personaggi fa salire in lui la rabbia di essere stato accusato in casa sua da un misero frate e lo spinge a vendicare l'onore offeso, anche se la profezia monca di fra Cristoforo gli procura una certa inquietudine. Un servo lo informa che gli ospiti sono usciti insieme al conte Attilio, quindi don Rodrigo esce a sua volta per una passeggiata con un ampio seguito di bravi. Il nobile si dirige verso Lecco e gode al vedere gli artigiani e i contadini che si inchinano al suo passaggio, come pure gli abitanti più altolocati di quelle terre, mentre non incontra il castellano spagnolo che sarebbe l'unico a cui anch'egli farebbe un inchino deferente. Per sgombrare la mente dai brutti pensieri, don Rodrigo entra in una casa dove è ben accolto (probabilmente un bordello), quindi torna al palazzo quando è rientrato anche il conte Attilio.
Durante la cena don Rodrigo è alquanto taciturno e il conte Attilio lo punzecchia invitandolo a pagare la scommessa, dal momento che gli sembra evidente che non potrà vincerla. L'altro ribatte che non è ancora passato il giorno di San Martino, al che Attilio rincara la dose dicendosi convinto che padre Cristoforo ha addirittura convertito il cugino e aggiungendo parole di scherno ai danni del signorotto, ma questi tronca la questione proponendo di raddoppiare la posta della scommessa. Attilio accetta e rivolge altre domande insistenti a Rodrigo, che tuttavia risponde in modo elusivo e rimanda al giorno fissato come termine per la scommessa.


Don Rodrigo ordina al Griso di rapire Lucia
Il giorno dopo don Rodrigo sembra avere scordato le ubbie provocate in lui dalla profezia di padre Cristoforo ed è ben deciso ad andare fino in fondo coi suoi sporchi progetti. Fa dunque chiamare a sé il Griso, il temuto capo dei suoi bravi che, tempo prima, aveva ucciso un uomo in pieno giorno e si era messo sotto la protezione del signorotto, ponendosi al riparo da ogni giustizia: ciò gli ha garantito l'impunità e lo ha reso più feroce esecutore di nuovi delitti, oltre ad aver dimostrato a tutti che don Rodrigo può farsi beffe delle leggi e della giustizia. Il nobile ordina al Griso di fare in modo che Lucia la sera stessa sia portata al palazzo, dandogli carta bianca circa i mezzi e gli uomini da utilizzare e raccomandandogli di non torcere un solo capello alla ragazza, desiderio che il bravo si impegna a rispettare. Questi spiega al padrone che la casa di Lucia è in fondo al paese ed è posta accanto al rudere di un vecchio casolare andato a fuoco, che i popolani credono abitato dalle streghe e che sarà dunque un ottimo nascondiglio per i bravi; l'uomo aggiunge altri dettagli al piano che ha in mente, dopo di che don Rodrigo suggerisce di infliggere una buona bastonatura a Renzo se capitasse l'occasione, per indurre il giovane a non fare storie dopo il rapimento di Lucia e a non rivolgersi alla giustizia. Il Griso promette che tutto andrà a buon fine e il resto della mattinata è speso in preparativi e sopralluoghi per l'azione serale, quindi il falso mendicante che si era introdotto in casa delle due donne altri non era che il Griso travestito e i falsi passanti erano suoi uomini, i quali si erano poi ritirati per non destare sospetti con la loro presenza.


Il vecchio servitore va al convento
Intanto il vecchio servitore di don Rodrigo che ha promesso il suo aiuto a padre Cristoforo sta all'erta e riesce a capire cosa stanno macchinando il Griso e i suoi bravi: decide di mantenere la parola data ed esce con una scusa dal palazzo del padrone, diretto a Pescarenico per informare il frate di quanto ha appreso, anche se è già molto tardi e teme che non farà in tempo a sventare i piani del signorotto. Intanto il Griso e altri bravi raggiungono una piccola avanguardia che è già stata mandata al casolare abbandonato, portando una lettiga che servirà per trasportare Lucia, dopodiché il capo degli sgherri ne manda tre all'osteria del paese ordinando loro di osservare e spiare cosa accada in paese, mentre lui e gli altri restano appostati lì in attesa di entrare in azione.

F. Gonin, All'osteria
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F. Gonin, All'osteria

Renzo, Tonio e Gervaso all'osteria

È ormai il tramonto quando Renzo va a casa delle due donne dicendo che andrà a mangiare un boccone all'osteria con Tonio e Gervaso e promettendo che tornerà a prenderle per attuare lo stratagemma quando suonerà l'Avemaria. I tre giungono allora all'osteria e trovano in piedi sull'uscio uno dei tre bravi mandati lì dal Griso, che non si muove dalla sua posizione e squadra Renzo con un'occhiata maligna. Il giovane entra senza rivolgergli la parola, dunque i tre nell'osteria vedono gli altri due bravi seduti a un tavolo che giocano rumorosamente a morra, uno dei quali scambia un cenno d'intesa con quello alla porta non appena vede Renzo. Il giovane è insospettito, tuttavia non dice nulla e ordina la cena all'oste, dopo essersi seduto a un tavolo.
Renzo chiede poi all'oste informazioni sui tre individui che ha visto, ma l'uomo risponde in modo evasivo, dicendo che non li conosce e che gli sembrano uomini onesti, quindi torna in cucina a prendere delle polpette senza dare al giovane modo di aggiungere altro. In cucina l'oste è avvicinato da uno dei bravi, che gli chiede a sua volta informazioni sui tre nuovi arrivati: l'oste è fin troppo sollecito nel dargli numerosi dettagli sul loro conto, facendone i nomi e fornendo altre indicazioni, dopodiché torna a servire le polpette a Renzo e agli altri due. Renzo chiede all'oste come fa a sapere che quei tre sono uomini onesti e l'uomo spiega che dev'essere così in quanto pagano il conto e non creano problemi, invitando poi il giovane a mangiare senza porsi troppe questioni, visto che sta per sposarsi. L'oste se ne va e l'autore aggiunge considerazioni ironiche circa la sua condotta con gli avventori della locanda.

F. Gonin, L'oste e un bravo
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F. Gonin, L'oste e un bravo

Renzo, Tonio e Gervaso escono dall'osteria

Renzo, Tonio e Gervaso cenano in fretta e parlano sottovoce per non dare nell'occhio, quando a un tratto Gervaso esclama a voce alta che Renzo deve prender moglie e ha bisogno del loro aiuto, al che il fratello gli intima di tacere dandogli di gomito. I tre finiscono di cenare ed escono, dopo che Renzo ha pagato il conto pur avendo mangiato e bevuto meno degli altri, e giunti in strada il giovane si accorge che due dei tre bravi lo stanno seguendo e si ferma in attesa delle loro mosse. I due bravi parlano tra loro e osservano che sarebbe una buona cosa poter dare una solenne bastonata a Renzo, come suggerito loro dal Griso, tuttavia rinunciano in quanto non è tarda sera e c'è troppa gente in paese, per cui si ritirano lasciando che i tre se ne vadano per la loro strada. Nel villaggio gli abitanti si stanno ritirando dopo la giornata di lavoro e si sente un vociare confuso, mentre nelle case si accendono i focolari per cucinare delle cene molto misere a causa della carestia. I tre procedono per il loro cammino e giungono alla casetta di Lucia e Agnese quando ormai è notte fonda.

F. Gonin, Il gruppo nella notte
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F. Gonin, Il gruppo nella notte

Il gruppo giunge alla casa del curato

Lucia è come stordita e pensa preoccupata allo stratagemma che dovranno attuare, per cui al bussare di Renzo è colta da una tale paura che vorrebbe quasi tirarsi indietro e mancare alla promessa fatta; tuttavia, quando vede che tutti sono pronti a muoversi, li segue macchinalmente prendendo il braccio della madre Agnese.
Il gruppo procede silenzioso nella notte e, anziché attraversare il paese, compie un giro più lungo per non dare nell'occhio, raggiungendo infine la casa di don Abbondio. Qui i cinque si dividono, in quanto i due promessi restano nascosti insieme ad Agnese, mentre Tonio e Gervaso picchiano all'uscio del curato: si affaccia a una finestra Perpetua, che chiede infuriata chi disturba a quest'ora, al che Tonio spiega di essere venuto a saldare il debito di venticinque lire con don Abbondio dal momento che ha ricevuto dei soldi e che l'indomani mattina potrebbe averli già spesi. Perpetua si ritira dicendo che andrà a chiedere al curato se lui e il fratello possono entrare, dunque Agnese rincuora Lucia e si unisce ai due fratelli, per trattenere in seguito Perpetua con chiacchiere e dare modo alla figlia e a Renzo di introdursi in casa.

Temi principali e collegamenti

- Renzo torna a proferire minacce ai danni di don Rodrigo, come già aveva fatto pensando tra sé nel cap. II e parlando con Lucia e Agnese nel cap. III; qui, tuttavia, la sua reazione è probabilmente accentuata ad arte al fine di indurre Lucia ad acconsentire al "matrimonio a sorpresa", come l'autore ironicamente osserva.

- Entra in scena il Griso, il capo dei bravi di don Rodrigo che avrà una parte importante nelle successive vicende: il personaggio è dapprima introdotto come il falso mendicante che si introduce per un "sopralluogo" nella casa di Agnese e Lucia, senza che sia rivelata la sua identità, poi l'autore compie un flashback tornando al giorno prima e spiegando che don Rodrigo gli ha ordinato di rapire la ragazza. Il bravo, tra le figure più odiose del romanzo, ordisce una vera e propria spedizione militare con tanto di sopralluoghi preventivi, avanguardie e appostamenti, che ovviamente è sproporzionata rispetto alla viltà dell'impresa (Manzoni colpisce spesso il personaggio con una certa ironia, sottolineando anche il suo scarso coraggio).

- La scena in cui don Rodrigo cammina furiosamente nella sala del suo palazzo, alle cui pareti campeggiano i ritratti degli antenati nobili (tutti personaggi che si erano sforzati di incutere timore ai loro sottoposti), ricorda volutamente il Mattino di G. Parini (vv. 1105 ss.), in cui il giovin signore osserva anche lui i ritratti degli avi illustri: a differenza del signorotto, tuttavia, il protagonista del Giorno mostra una certa indifferenza per le opere militari e d'ingegno dei suoi antenati, in quanto impegnato in occupazioni assai più frivole (ciò è parte della polemica anti-nobiliare del Parini).
Nel colloquio tra don Rodrigo e il conte Attilio apprendiamo che il termine della famosa scommessa citata da Lucia nel cap. III è il giorno di S. Martino (11 novembre 1628). In quella giornata verrà descritto l'assalto ai forni di Milano, cui assisterà Renzo.

- L'autore descrive in una pagina famosa (in cui cita indirettamente anche il Giulio Cesare di Shakespeare) lo stato d'animo di Lucia quando è il momento di recarsi alla casa del curato, per cui la giovane è assalita da una tale paura per quell'impresa da essere sul punto di tirarsi indietro, anche se poi accetta di seguire gli altri non riuscendo ad opporsi. La descrizione dei cinque che camminano poi nella notte verso la casa del curato ("Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato") è un rimando all'Eneide (VI, 268: Ibant obscuri sola sub nocte per umbram, "Andavano nella notte oscura e solitaria attraverso le ombre", riferito a Enea e alla Sibilla che scendono agli Inferi) e come la precedente citazione dotta anche questa è ironica, in quanto c'è sproporzione tra la situazione epica e il banale stratagemma che il gruppo intende attuare.
L'osteria del paese (già presentata nel cap. VI) diventa qui luogo di intrighi e progetti criminosi, sia per la presenza di Renzo, Tonio e Gervaso che si preparano allo stratagemma, sia per quella dei bravi che sorvegliano il giovane su incarico del Griso e poi lo seguono con l'intenzione di aggredirlo.

- Particolarmente caratterizzata è la figura dell'oste, che elude abilmente le domande di Renzo sugli sgherri di don Rodrigo ma è decisamente pronto a rispondere a quelle dei bravi su di lui e i suoi due amici, con un atteggiamento che per certi versi ricorda quello dell'oste della Luna Piena (capp. XIV-XV).

D. Teniers, Scena di taverna (1658)
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D. Teniers, Scena di taverna (1658)

L'osteria come luogo di corruzione e intrigo

Nel mondo dei Promessi sposi la taverna è spesso presentata come un luogo immorale e contrapposto alla quiete del focolare domestico, nella quale si svolgono trame e intrighi che sono spesso fonte di guai per il protagonista Renzo: non è un caso che sia esclusivamente questo personaggio a frequentare tali luoghi di "perdizione", che sono presentati dunque come tappe del processo di formazione che il giovane affronta nel corso delle vicende del romanzo (del resto la taverna è il posto dove si beve, si gioca d'azzardo e si praticano attività disdicevoli in base alla morale religiosa dell'autore). La cosa è evidente già riguardo alla modesta osteria del paese dei due promessi, dove Renzo invita dapprima Tonio per coinvolgerlo nel sotterfugio del "matrimonio a sorpresa" (cap. VI) e dove, la sera dopo, si reca in compagnia dello stesso Tonio e di suo fratello Gervaso in attesa di andare a casa di don Abbondio (VII). Qui ci sono tre bravi che spiano i movimenti del villaggio e che gettano non poca inquietudine nel protagonista, il quale peraltro ignora i piani di don Rodrigo (quella sera è previsto il rapimento di Lucia, che non andrà in porto proprio a causa dello stratagemma); all'uscita Renzo eviterà un'aggressione grazie alla folla dei paesani che si ritira verso casa e la descrizione della gente in strada contrasta fortemente con l'atmosfera cupa, pesante che si respira all'interno dell'osteria, specie per la presenza dei tre figuri (infatti Renzo ha preferito uscirne prima possibile). Interessante è poi la figura dell'oste, che elude le domande di Renzo sui bravi ma è fin troppo rapido a informare gli sgherri di don Rodrigo sul conto del giovane e dei suoi amici, mostrandosi dunque servile nei confronti di chi è forte e ben fornito di denari: ciò spiega anche perché l'uomo definisca "galantuomini" i bravi, argomentando che essi "bevono il vino senza criticarlo... pagano il conto senza tirare... non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, lontano dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo" (dunque ciò che a lui preme è tutelare i propri interessi senza curarsi della giustizia o di quanto avviene nel suo locale, il che è coerente con la condotta da lui dimostrata nell'episodio).
Un personaggio tutto sommato assai simile è l'oste della Luna Piena, ovvero il padrone della locanda dove Renzo si reca in compagnia del poliziotto travestito in seguito alla sommossa del giorno di S. Martino, a Milano (XIV): il luogo è descritto come una bettola malfamata e frequentata da gente di ogni risma, con gli avventori intenti a giocare a carte facendo un gran chiasso e bevendo abbondantemente (ritorna il binomio alcool-gioco d'azzardo che qualifica il luogo come immorale e fonte di corruzione), mente l'oste riconosce immediatamente lo sbirro imprecando tra sé per la sua presenza nel locale e chiedendosi se Renzo sia un altro poliziotto o una vittima; in seguito l'oste cercherà di farsi complice della commedia del poliziotto, inducendo Renzo a dare le proprie generalità in base a una grida di cui gli mostrerà una copia, benché il giovane si rifiuti a causa della sua diffidenza per la parola scritta e tutto ciò che ha a che fare con la legge. L'atteggiamento del padrone è ancora una volta quello di chi vuole tutelare se stesso e i propri interessi, perciò si mostra ossequioso verso il poliziotto e insofferente verso l'ingenuità di Renzo, al cui destino è del tutto indifferente e che vede come una seccatura che può dargli noie legali (è il motivo per cui, a sera inoltrata, andrà al palazzo di giustizia a rendere testimonianza al notaio criminale, e parlando tra sé coprirà di insulti Renzo accusandolo di essere un pazzo e di avergli quasi "messo sottosopra l'osteria", cap. XV). Val la pena di rammentare che il giovane verrà arrestato dai birri proprio nella locanda, che quindi diventa per lui un "luogo di perdizione" che può costargli caro, dal momento che lì la sera prima, tra i fumi dell'alcool, aveva finito per dire il proprio nome al poliziotto travestito che l'aveva raggirato con un astuto stratagemma.
La lezione servirà comunque al protagonista, che dopo la sua fuga rocambolesca entrerà in un'altra osteria a Gorgonzola (XVI) mentre è diretto all'Adda per passare il confine, e qui si comporterà in modo assai più accorto che la sera prima: anche qui, del resto, l'oste si mostra curioso di sapere da dove viene Renzo e risponde alle sue domande circa la strada più breve per arrivare al fiume aggiungendo altre interrogazioni, alle quali il giovane risponde in modo evasivo ("Maledetti gli osti!", pensa tra sé Renzo che, evidentemente, ha compreso che questi luoghi sono potenzialmente pericolosi e occorre usare molta cautela quando si ha a che fare con quegli astuti levantini che sono i gestori delle locande). Egli stesso se ne renderà conto alla fine del romanzo (XXXVIII), quando elaborerà la sua "morale" della vicenda elencando, fra le cose che ha imparato, anche il fatto di "non alzar troppo il gomito", il che è un evidente riferimento proprio alla sua disavventura alla Luna Piena che tanto cara poteva costargli (non è un caso, d'altronde, che quella di Gorgonzola sia l'ultima osteria in cui il protagonista mette piede nel romanzo e che in occasione del suo secondo viaggio a Milano egli si tenga prudentemente alla larga da questi luoghi malfamati e fonte di non pochi problemi per lui).

Capitolo VII
Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini.
- La pace sia con voi, - disse, nell’entrare. - Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.
Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piùttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento. Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
- Vorrei sapere, - gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; - vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.
- Povero Renzo! - rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza : - se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.
- Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole?
Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente.
- Ma qualcosa ha dovuto dire: cos’ha detto quel tizzone d’inferno?
- Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figurato nemmen di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma... ma pur troppo ho dovuto intendere ch’è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo... oh! credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu...! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi... sappiate tutti ch’io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch’io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.
Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti.
- Avete sentito cos’ha detto d’un non so che... d’un filo che ha, per aiutarci? - disse Lucia. - Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci...
- Se non c’è altro...! - interruppe Agnese. - Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo...
- Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! - interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
- Oh Renzo! - esclamò Lucia.
- Cosa volete dire? - esclamò Agnese.
- Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui...
- No, no, per amor del cielo...! - cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
- Non son discorsi da farsi, neppur per burla, - disse Agnese.
- Per burla? - gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. - Per burla! vedrete se sarà burla.
- Oh Renzo! - disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: - non v’ho mai visto così.
- Non dite queste cose, per amor del cielo, - riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. - Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand’anche... Dio liberi!... contro i poveri c’è sempre giustizia.
- La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza... e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà...! e poi in tre salti...! [1]
L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: - non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re...
E bene! - gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: - io non v’avrò; ma non v’avrà né anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del... [2]
- Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così, - esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: - questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!
- E io che male v’ho fatto, perché mi facciate morire? - disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti.
- Voi! - rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira tuttavia: - voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!
- Sì sì, - rispose precipitosamente Lucia: - verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.
- Me lo promettete? - disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt’a un tratto, più umano.
- Ve lo prometto.
- Me l’avete promesso.
- Signore, vi ringrazio! - esclamò Agnese, doppiamente contenta.
In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.
- Ve l’ho promesso, - rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: - ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre...
- Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito?
- No no, - disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. - Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia...
- Perché volete far de’ cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno.
- Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima.
- Ve lo prometto, da povero figliuolo [3].
- Ma, questa volta, mantenete poi, - disse Agnese.
Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.
Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel’augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell’ora, si trattenesse più a lungo.
La notte però fu a tutt’e tre così buona come può essere quella che succede a un giorno pieno d’agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a un’impresa importante, e d’esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon’ora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand’operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora l’uno ora l’altra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.
- Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera? - domandò Agnese a Renzo.
- Le zucche! [4] - rispose questo: - sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.
- Manderò Menico.
- Va bene, - rispose Renzo; e partì, per accudire all’affare, come aveva detto.
Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch’era un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte [5], e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo chiese ai parenti [6], come in prestito, per tutto quel giorno, - per un certo servizio, - diceva. Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. - Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo...
- Ho capito, - disse Menico: - quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dà, ogni tanto, qualche santino.
- Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de’ compagni, al lago, a veder pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far quell’altro tuo giochetto solito...
Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole.
- Poh! zia; non son poi un ragazzo.
- Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta... guarda; queste due belle parpagliole [7] nuove son per te.
- Datemele ora, ch’è lo stesso.
- No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n’avrai anche di più.
Nel rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Un mendico, né rifinito [8] né cencioso come i suoi pari, e con un non so che d’oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert’occhiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con un’indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese s’affrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lì diede un’altra occhiata in fretta, come poté. Gridatogli dietro: - ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! - tornò indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, e guardavan sott’occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese s’alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s’affacciava all’uscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: - nessuno - : parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che né l’una né l’altra ne sapessero ben chiaramente il perché. Ma ne rimase a tutt’e due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.
Convien però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que’ ronzatori misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de’ nemici e de’ suoi soldati, torvo nella guardatura, co’ capelli corti e ritti, co’ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l’eroe, con le gambiere, co’ cosciali, con la corazza, co’ bracciali, co’ guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de’ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un’ampia toga nera; tutto nero, fuorché un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo de’ senatori, e non lo portavan che l’inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d’estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de’ suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s’arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan [9]. Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni [10], e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch’era trattenuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che que’ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: - e il conte Attilio? - domandò, sempre camminando, don Rodrigo.
- È uscito con que’ signori, illustrissimo.
- Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito.
Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva. Come inferiori, l’inchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; ché, in que’ contorni, non ce n’era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, d’aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che s’incontrasse col signor castellano spagnolo, l’inchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado l’uno dell’altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa [11], dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch’è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
- Cugino, quando pagate questa scommessa? - disse, con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.
- San Martino non è ancor passato.
- Tant’è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario, prima che...
- Questo è quel che si vedrà.
- Cugino, voi volete fare il politico [12]; ma io ho capito tutto, e son tanto certo d’aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un’altra.
- Sentiamo.
- Che il padre... il padre... che so io? quel frate in somma v’ha convertito.
- Eccone un’altra delle vostre.
- Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo -. E qui, parlando col naso, accompagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: - in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d’ogni erba un fascio, aveva messo gli occhi...
- Basta, basta, - interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. - Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch’io.
- Diavolo! che aveste voi convertito il padre!
- Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà -. La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano né incamminati, né assolutamente fissati.
La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L’immagini più recenti della passeggiata trionfale, degl’inchini, dell’accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito non poco a rendergli l’animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. "Cose grosse", disse tra sé il servitore a cui fu dato l’ordine; perché l’uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de’ bravi, quello a cui s’imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Cosi, impegnandosi a ogni delitto che gli venisse comandato, colui si era assicurata l’impunità del primo. Per don Rodrigo, l’acquisto non era stato di poca importanza; perché il Griso, oltre all’essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell’opinione.
- Griso! - disse don Rodrigo: - in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.
- Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone.
- Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purché la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male.
- Signore, un po’ di spavento, perché la non faccia troppo strepito... non si potrà far di meno.
- Spavento... capisco... è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?
- Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.
- Sotto la tua sicurtà [13]. E... come farai?
- Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare. e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa... vossignoria non saprà niente di queste cose... una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato [14], e me ne rido. Questi villani, che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.
- Va bene; e poi?
Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l’impresa, senza che rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, d’impor silenzio alla povera Agnese, d’incutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi; e tutte l’altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perché, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se n’andava, per metter mano all’esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: - senti: se per caso, quel tanghero temerario [15] vi desse nell’unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così, l’ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più sicuramente l’effetto. Ma non l’andate a cercare, per non guastare quello che più importa: tu m’hai inteso.
- Lasci fare a me, - rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d’ossequio e di millanteria; e se n’andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s’era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s’eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dell’impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si poté fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, s’accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di là, commentando tra sé una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di prendere un po’ d’aria, e s’incamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola [16], la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro all’osteria del paesetto; uno che si mettesse sull’uscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare.
Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: - Tonio e Gervaso m’aspettan fuori: vo con loro all’osteria, a mangiare un boccone; e, quando sonerà l’ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento -. Lucia sospirò, e ripeté: - coraggio, - con una voce che smentiva la parola.
Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava, da una parte e dall’altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch’era innanzi agli altri, fu lì per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un’impresa scabrosa alle mani, non fece vista d’accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l’altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l’apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce, cioè que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede), e mescendosi or l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch’era tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran "sei" che n’era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d’occhio al compagno, poi a quel dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne’ loro aspetti un’interpretazione di tutti que’ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’oste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sé in una stanza vicina, e ordinò la cena.
- Chi sono que’ forestieri? - gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.
- Non li conosco, - rispose l’oste, spiegando la tovaglia.
- Come? né anche uno?
- Sapete bene, - rispose ancora colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola, - che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate.
- Come potete sapere...? - ripigliava Renzo; ma l’oste, già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: - Chi sono que’ galantuomini?
- Buona gente qui del paese, - rispose l’oste, scodellando le polpette nel piatto.
- Va bene; ma come si chiamano? chi sono? - insistette colui, con voce alquanto sgarbata.
- Uno si chiama Renzo, - rispose l’oste, pur sottovoce: - un buon giovine, assestato [17] ; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L’altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n’abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L’altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con permesso.
E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l’interrogante; e ando a portare il piatto a chi si doveva. - Come potete sapere, - riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire, - che siano galantuomini, se non li conoscete?
- Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce all’azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? - Così dicendo, se ne tornò in cucina.
Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice ch’era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?
La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma l’invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un po’ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora d’andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate.
- Che bella cosa, - scappò fuori di punto in bianco Gervaso, - che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno...! - Renzo gli fece un viso brusco. - Vuoi stare zitto, bestia? - gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un po’ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto [18], dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a Renzo, come quand’era entrato. Questo, fatti ch’ebbe pochi passi fuori dell’osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co’ suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s’accorsero d’essere osservati, si fermarono anch’essi, si parlaron sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. - Sarebbe però un bell’onore, senza contar la mancia, - diceva uno de’ malandrini, - se, tornando al palazzo, potessimo raccontare d’avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare.
- E guastare il negozio principale [19]! - rispondeva l’altro. - Ecco: s’è avvisto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar tutti a pollaio [20].
C’era in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno. Quando Renzo vide che i due indiscreti s’eran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora all’uno, ora all’altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch’era già notte.
Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno), l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce d’un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio all’opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto: talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s’era appena badato; l’immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d’ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piùttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: - son qui, andiamo -; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo né forza di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d’attraversarlo: che s’andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l’angolo di essa; Agnese con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sé, e senza il quale non si poteva far nulla, s’affacciaron bravamente alla porta, e picchiarono.
- Chi è, a quest’ora? - gridò una voce dalla finestra, che s’aprì in quel momento: era la voce di Perpetua. - Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. È forse accaduta qualche disgrazia?
- Son io, - rispose Tonio, - con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato.
- È ora da cristiani questa? - disse bruscamente Perpetua. - Che discrezione? Tornate domani.
- Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe [21] nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri.
- Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire a quest’ora?
- Gli ho ricevuti, anch’io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l’ora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.
- No, no, aspettate un momento: torno con la risposta. Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: - coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente, - si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un momento.

Note

1. Renzo allude all'intenzione di varcare il confine, dopo aver ucciso don Rodrigo.
2. Del diavolo (quando il signorotto sarà morto).
3. Espressione lombarda che significa "da uomo sincero".
4. Fossi matto, nemmeno per sogno.
5. Abbastanza sveglio.
6. Genitori.
7. Monete d'argento con scarso valore, in corso a Milano nel XVII secolo.
8. In cattive condizioni.
9. Il profeta biblico che redarguì duramente re David per il suo adulterio con Betsabea (II Re, XII, 1 ss.).
10. I brividi, la pelle d'oca.
11. Si tratta di una casa di tolleranza, un bordello.
12. Il diplomatico.
13. Ne risponderai personalmente.
14. Il sabato, secondo la superstizione popolare, era il giorno in cui le streghe si riunivano per i loro convegni.
15. Renzo.
16. Una portantina, che servirà per trasporare Lucia prigioniera.
17. Assennato, con la testa sulle spalle.
18. Che aveva mangiato e bevuto meno di tutti.
19. L'impresa principale, ovvero il rapimento di Lucia.
20. A dormire (espressione popolare).
21. Monete milanesi d'argento, del valore di venti soldi (una lira) e con l'effigie di Sant'Ambrogio.


Fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-vii.html

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