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Capitolo IX (manca un'immagine)

"Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni,
faceva a prima vista un'impressione di bellezza,
ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi,
scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente
sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto
dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino
cingeva una fronte di diversa, ma non d'inferiore bianchezza. Ma quella fronte si raggrinzava spesso,
come per una contrazione dolorosa;
e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano,
con un rapido movimento..."

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I Promessi Sposi
 · 1 Apr 2018
G. Molteni, La monaca di Monza
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G. Molteni, La monaca di Monza

Personaggi: Renzo, Agnese, Lucia, il barocciaio, il padre guardiano, la fattoressa, Gertrude, il principe padre di Gertrude, la madre badessa, il paggio

Luoghi: L'Adda, Monza, Milano

Tempo: 11 novembre 1628, al mattino (nel flashback: un ampio arco di tempo nei vent'anni precedenti)

Temi: La carestia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: Renzo, Agnese e Lucia sono portati a Monza dal conduttore del calesse. I due promessi si separano. Il padre guardiano dei cappuccini conduce le due donne al convento di Gertrude, quindi le presenta alla "Signora". Colloquio tra questa, Agnese e Lucia. La storia di Gertrude: l'infanzia al convento, il rifiuto di prendere il velo, l'ostilità della famiglia, il biglietto al paggio.

F. Gonin, Il baroccio
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F. Gonin, Il baroccio

Il viaggio a Monza

Il barcaiolo fa scendere Renzo, Agnese e Lucia sulla sponda opposta dell'Adda, quindi si allontana dopo aver ricevuto i ringraziamenti dei tre e aver rifiutato i pochi soldi che Renzo tenta di mettergli in mano. Il calesse è lì ad attenderli con il suo conduttore, perciò i tre salgono e l'uomo parte subito alla volta di Monza. Che la meta del viaggio sia quella città è detto dall'autore in modo esplicito, anche se l'anonimo tace il nome di quel luogo perché laggiù Lucia avrà a che fare con una persona potente coinvolta in un intrigo assai torbido, e appartenente a un'antica famiglia nobile che Manzoni, benché il casato si sia estinto da tempo, lascerà innominata.
Il baroccio giunge a Monza poco dopo l'alba e i tre vengono portati dal conduttore in una locanda, dove possono riposare e rifocillarsi (l'uomo rifiuta qualsiasi ricompensa come già il barcaiolo). Renzo vorrebbe trattenersi lì tutto il giorno per essere d'aiuto alle due donne, ma queste lo esortano a partire subito alla volta di Milano per obbedire alle istruzioni di padre Cristoforo e per non dare adito a pettegolezzi facendosi vedere in loro compagnia. Il giovane si congeda dunque da Agnese e Lucia trattenendo a stento le lacrime, mentre la ragazza piange mostrandosi addolorata per la separazione, poi Renzo lascia le due donne riprendendo il cammino.

F. Gonin, Il padre guardiano
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F. Gonin, Il padre guardiano

F. Gonin, Il padre guardiano

Il conduttore del calesse conduce Agnese e Lucia al convento dei padri cappuccini, che si trova poco fuori Monza e dove, una volta arrivati, l'uomo fa subito chiamare il padre guardiano. Questi si presenta sull'uscio e legge la lettera scritta da padre Cristoforo, in cui ci sono dettagli sulla vicenda che ha come protagonista Lucia, quindi riflette e conclude che solo la "Signora" potrà essere loro d'aiuto, invitando poi le due donne a seguirlo al convento delle monache dove le presenterà a questa persona. Il frate raccomanda tuttavia a Agnese e Lucia di seguirlo a una certa distanza in strada, per non dare adito a chiacchiere mostrando che il religioso se ne va in giro in compagnia di due donne, una delle quali è una "bella giovine".
Lucia e Agnese chiedono al conduttore del calesse che le accompagna chi sia questa "Signora" e l'uomo spiega che si tratta di una monaca, figlia di un nobile molto potente a Milano e a Monza, per cui la donna è molto rispettata nel monastero come se fosse la badessa; dunque, se vorrà accordar loro la sua protezione, potranno essere certe di trovare un rifugio assolutamente sicuro. Poco dopo il gruppo giunge al monastero, che sorge non distante dalla porta del borgo, quindi il padre guardiano prega il conduttore di tornare dopo un paio d'ore a ricevere la risposta e l'uomo si congeda dalle due donne con saluti e ringraziamenti. Il frate fa entrare Agnese e Lucia nel cortile del convento e le fa attendere nelle stanze della fattoressa, mentre lui va a chiedere udienza alla "Signora"; torna poco dopo (intanto la fattoressa ha rivolto alle due donne domande insistenti) e le accompagna al parlatorio dando loro indicazioni su come comportarsi con la monaca, che potrebbe prendere a cuore il loro caso.

G. Gallina, Presentazione alla Signora
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G. Gallina, Presentazione alla "Signora"

Agnese e Lucia parlano con Gertrude

Lucia non è mai stata in un convento e, una volta dentro il parlatorio, è stupita di non scorgere la monaca cui vorrebbe fare il suo inchino: vede poi il padre guardiano avvicinarsi a una finestrella protetta da una grata che si apre sulla parete, al di là della quale si presenta in piedi Gertrude, la "Signora" del monastero. La donna dimostra circa 25 anni e la sua bellezza è come sfiorita, con qualcosa di lascivo e morboso; indossa un velo nero e una benda bianca di lino che circonda il viso e la fronte, che si raggrinza spesso come se esprimesse un qualche dolore segreto. Gli occhi neri fissano talvolta l'interlocutore con una certa curiosità, talaltra sono chinati e sembrano chiedere pietà e affetto, mentre in qualche circostanza vi si può leggere un certo odio e risentimento, quando non il travaglio di pene nascoste che traspaiono da un'apparente svogliatezza. La donna ha guance molto pallide e labbra rosse che spiccano sul volto, mentre il suo abbigliamento mostra alcuni segni di trascuratezza della regola monastica, giacché la tonaca è attillata in vita come una veste laica e sotto il velo spuntano ciocche di lunghi capelli neri, che la suora dovrebbe tenere sempre corti.
Agnese e Lucia non fanno caso a questi particolari e il padre guardiano presenta alla "Signora" le due donne che si fanno avanti inchinandosi, mentre Gertrude osserva Lucia con una malcelata curiosità. La monaca ha parole di apprezzamento per il padre e per i cappuccini, quindi chiede ulteriori dettagli sulla storia di Lucia: la giovane arrossisce e Agnese inizia a parlare, ma il frate le lancia un'occhiataccia e spiega poi a Gertrude che Lucia ha dovuto lasciare il suo paese a causa di imprecisati pericoli, suscitando la curiosità della monaca che chiede altri particolari. Il frate si schermisce affermando che si tratta di questioni delicate, precisando tuttavia che Lucia ha subìto la persecuzione di un nobile prepotente, al che Gertrude invita Lucia a farsi avanti e a dire se quel cavaliere era davvero per lei un "persecutore odioso".

F. Gonin, Lucia e Gertrude
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F. Gonin, Lucia e Gertrude

Colloquio tra Lucia e Gertrude

Lucia è sconvolta dall'imbarazzo, dal momento che parlare di certe cose sarebbe per lei difficile anche con una sua pari, figurarsi alla presenza di quella signora che insinua anche dei dubbi sulla sua vicenda. La giovane inizia a balbettare senza dir nulla, quando interviene in suo aiuto Agnese che spiega a Gertrude che la figlia odiava quel cavaliere ed era promessa sposa a un giovane perbene, di cui sarebbe già la moglie se il curato del loro paese avesse avuto un po' più di coraggio. Gertrude interrompe stizzita Agnese e la rimprovera di parlare senza essere interrogata, mentre il padre guardiano accenna a Lucia che dovrà essere lei a spiegare alla monaca come stanno le cose: Lucia vince la sua ritrosia e conferma la versione della madre, dicendo che lei prendeva in marito Renzo di sua volontà e preferirebbe morire piuttosto che cadere nelle mani di quel "cavaliere", supplicando poi la "Signora" di concedere loro la sua protezione. Gertrude crede a Lucia e si dice pronta ad aiutarla, così decide di ospitare le due donne nell'alloggio lasciato libero dalla figlia della fattoressa che si è sposata, le cui mansioni saranno ricoperte da loro nei giorni seguenti. In seguito Gertrude congeda il padre e Agnese, trattenendo presso di sé Lucia e prendendo gli accordi necessari con la badessa, mentre il frate va a scrivere una lettera in cui fornirà ragguagli a padre Cristoforo su come ha sistemato le due donne (il cappuccino è piuttosto fiero della facilità con cui, a suo dire, ha trovato un sicuro rifugio per la giovane e sua madre). Intanto la monaca si apparta con Lucia e, abbandonato il ritegno che aveva mantenuto alla presenza del padre guardiano, inizia a fare con la giovane e inesperta contadina dei discorsi assai strani, su argomenti non molto convenienti a una religiosa.

F. Gonin, Gertrude bambina
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F. Gonin, Gertrude bambina

La storia di Gertrude: la prima infanzia

A questo punto l'autore interrompe la narrazione e inizia un lungo flashback, in cui narra la storia passata di Gertrude e spiega lo strano comportamento della monaca: costei è l'ultima figlia di un ricco e potente principe di Milano, il quale ha deciso che tutti i figli cadetti dovranno entrare nel clero per non intaccare il patrimonio di famiglia e far sì che esso vada interamente al primogenito. La bambina è destinata al chiostro prima ancora di nascere e, una volta venuta al mondo, le viene imposto il nome Gertrude per volontà del padre, per ricordare immediatamente l'idea del velo claustrale. I suoi primi giocattoli sono bambole vestite da monaca e ogni volta che i genitori o il fratello maggiore le vogliono fare un complimento le dicono sempre: "che madre badessa!", ricordandole che quando sarà la superiora di un convento potrà comportarsi a suo piacimento, mentre ora che è bambina deve dominare il suo carattere un po' ribelle. Nessuno le dice mai in modo esplicito che dovrà farsi monaca, ma la cosa è sottintesa in tutti i discorsi e tale idea le viene insinuata nella mente in ogni modo, specie dal principe che, quando parla del futuro dei suoi figli, assume un contegno imperioso e pieno di orgoglio nobiliare.

F. Gonin, Gertrude e le educande
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F. Gonin, Gertrude e le educande

Gertrude entra in monastero

A sei anni Gertrude viene mandata come educanda nello stesso monastero dove poi incontrerà Lucia, posto cioè nella città di Monza della quale il principe padre è il feudatario: l'uomo sa bene che la badessa e le altre monache "notabili" del convento saranno ben liete di assecondare i suoi disegni per ottenere vantaggi politici, infatti Gertrude riceve subito un trattamento particolare che la distingue dalle altre bambine (viene chiamata la "signorina", riceve molte attenzioni, gode di infiniti privilegi...). Non tutte le monache sono complici del padre nel mettere in trappola Gertrude, ma molte non sospettano di nulla e altre, pur nutrendo qualche dubbio, restano in silenzio per non sollevare scandali.
Passano gli anni e Gertrude spesso si vanta con le compagne del destino di monaca e di badessa che l'attende, senza tuttavia suscitare quell'invidia che si aspetterebbe: scopre, anzi, che le altre educande sognano di sposarsi e di condurre una felice vita nel mondo, al che Gertrude comincia a capire che lei pure si sente inclinata alla vita laica e che, dopoputto, nessuno potrà costringerla a prendere il velo contro la sua volontà. Si tratta però di negare il suo consenso al padre, che lo dà ormai per scontato, il che la porta a coltivare mille paure e ripensamenti: è invidiosa delle compagne e spesso fa loro dei dispetti, o fa pesare la sua superiorità nel convento, salvo poi cercare la loro complicità e la loro comprensione; la religione non è affatto una consolazione per lei, diventa anzi fonte di ulteriori timori e paure, tanto da indurla a desiderare di chiudersi nel chiostro per espiare una qualche colpa che sente di aver commessa.

F. Gonin, Gertrude scrive la lettera
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F. Gonin, Gertrude scrive la lettera

Gertrude scrive la lettera al padre

Il diritto canonico stabilisce che una ragazza, per essere ammessa al noviziato, deve prima inoltrare una supplica al vicario delle monache che di lì a un anno dovrà esaminarla per accertare la sincerità della sua vocazione: la badessa sfrutta uno dei momenti di incertezza di Gertrude per farle sottoscrivere la supplica, cosa di cui la giovane si pente molto presto. Dopo un periodo di struggimento interiore, arriva il momento in cui la ragazza dovrà lasciare il monastero e trascorrere un mese nella casa paterna, come prescrive la regola per essere ammessa all'esame; Gertrude vorrebbe cogliere quest'occasione per dire al padre che non intende prendere i voti, ma poiché non ha il coraggio di farlo apertamente accetta il consiglio maligno di una compagna, la quale le suggerisce di informare preventivamente il principe con una lettera. La missiva viene concertata e scritta con l'aiuto di alcune compagne, quindi fatta pervenire segretamente al padre, senza tuttavia che arrivi mai una risposta. Gertrude, anzi, viene un giorno convocata dalla badessa che la informa di una gran collera del padre, per un qualche misterioso peccato da lei commesso, anche se potrà far dimenticare tutto comportandosi come si conviene, al che la giovinetta non osa chiedere ulteriori spiegazioni.

L'isolamento di Gertrude (ediz. 1840)
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L'isolamento di Gertrude (ediz. 1840)

Gertrude torna a casa del padre. Il biglietto al paggio

Arriva il giorno del ritorno a casa, che Gertrude attende con ansia ma anche con timore, dal momento che dovrà affrontare il padre e il resto della famiglia. La giovane pensa che riceverà delle pressioni, nel qual caso lei opporrà un rispettoso ma netto diniego, oppure verrà presa con le buone, al che li muoverà a compassione con lacrime e preghiere: ma non avviene né una cosa né l'altra, dal momento che al suo arrivo a casa è accolta con estrema freddezza da tutti i familiari, che la trattano come se fosse colpevole di qualcosa che, pure, non rivelano mai apertamente. Gertrude è tenuta in una sorta di isolamento, venendo ammessa alla compagnia dei genitori e del primogenito solo in ore stabilite, mentre nessuno le rivolge mai il discorso o le mostra un po' dell'affetto che lei vorrebbe. Oltre a ciò non può mai uscire di casa (neppure per andare in chiesa, poiché ce n'è una contigua al palazzo) e quando c'è una visita la ragazza viene mandata in una stanza all'ultimo piano, insieme ad alcune vecchie servitrici con cui spesso deve anche cenare.
I membri della servitù mostrano verso di lei lo stesso contegno dei suoi familiari, tranne un giovane paggio il quale mostra un certo rispetto e una forma di compassione nei suoi confronti, sentimenti che attirano l'interesse di Gertrude per il ragazzo del quale, molto ingenuamente, finisce per infatuarsi. Il suo comportamento viene notato da chi le sta intorno e la giovane viene tenuta d'occhio, finché un giorno è sorpresa da una cameriera mentre scrive un innocente biglietto d'amore per il paggio, che le viene strappato di mano e consegnato al padre.

F. Gonin, Il principe e Gertrude
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F. Gonin, Il principe e Gertrude

Il principe punisce Gertrude

Il principe non tarda a venire a rimproverare la figlia, la quale al suono dei suoi passi è colta da un sincero terrore: l'uomo si presenta con il biglietto in mano e un'aria terribilmente accigliata, dicendole che per punizione sarà confinata in camera sotto la sorveglianza della cameriera che l'ha scoperta, lasciando tuttavia intendere che seguirà un altro più grave e indeterminato castigo. In seguito il principe licenzia il paggio intimandogli di non rivelare mai nulla dell'accaduto, mentre Gertrude resta a tormentarsi in compagnia dell'odiata cameriera, che ricambia il suo malanimo in quanto costretta a sorvegliarla per chissà quanto tempo. La ragazza si aspetta di essere di nuovo rinchiusa nel monastero, esposta alla vergogna per il peccato commesso, mentre maledice se stessa per aver scritto quel biglietto che, teme, potrebbe essere stato letto anche dalla madre e dal fratello. La giovane è talmente prostrata che inizia a pensare che, forse, accettare il velo sarebbe la soluzione a tutti i problemi e sanerebbe la situazione, anche perché Gertrude è talmente pentita dell'errore compiuto che la monacazione le appare un mezzo efficace per espiare la colpa. Inoltre la compagnia forzata della sua carceriera le rende ancor più odiosa la situazione, giacché la donna non perde occasione per minacciare il castigo del padre, o per rinfacciarle la colpa che l'ha condotta a tale punizione: dopo quattro o cinque giorni di prigionia, una mattina, dopo uno scambio di dispetti con la cameriera, Gertrude decide di porre fine a tutto questo e si risolve a scrivere una lettera al padre, in cui non solo chiede perdono per l'errore commesso, ma si dice pronta a fare qualunque cosa gli piacerà pur di ottenerlo.


Temi principali e collegamenti


- Il capitolo è diviso in due parti, la prima delle quali descrive l'arrivo dei tre protagonisti a Monza, la separazione da Renzo e infine la presentazione delle due donne a Gertrude, mentre la seconda è l'inizio del lungo flashback che ripercorre l'infanzia e la giovinezza della monaca (la sua storia si concluderà nel cap. X). La digressione costituisce un vero "romanzo nel romanzo" e ha la funzione non solo di spiegare il comportamento singolare della "Signora" e il suo successivo coinvolgimento nel rapimento di Lucia, ma anche di condannare la spietata condotta del padre della giovane che agisce in nome dell'onore e dell'orgoglio nobiliare (si veda oltre).

- La separazione di Renzo e Lucia durerà a lungo, dal momento che il giovane sarà costretto a fuggire nel Bergamasco in seguito al suo coinvolgimento nella sommossa di Milano del giorno di S. Martino, per cui i due potranno rivedersi solo nel cap. XXXVI (quando Renzo ritroverà la sua promessa sposa al lazzaretto).

- La figura del padre guardiano dei cappuccini cui si rivolgono Agnese e Lucia è una figura secondaria, ma tratteggiata con tratti sapienti dall'autore: non ha nulla dell'autorevolezza di padre Cristoforo e, anzi, nutre un ingenuo ottimismo circa il rifugio presso la "Signora" che crede sicuro, mentre si rivelerà una trappola per la povera Lucia; appare fin troppo sollecito ad evitare i pettegolezzi facendosi vedere in strada con le due donne e in seguito mostra un certo untuoso servilismo (sia pure a fin di bene) nel rivolgersi a Gertrude e nell'istruire Lucia e la madre su come trattare con lei, in quanto appartenente a un ceto sociale superiore.

- Nel rivolgersi a Lucia, Gertrude insinua il "dubbio maligno" che la giovane potesse essere innamorata di don Rodrigo e che la madre l'abbia costretta a sposare Renzo per toglierle quel partito dalla testa: la ragazza, nonostante la sua ingenuità e inesperienza, intuisce dove voglia arrivare la monaca e risponde a tono, spazzando via ogni sospetto circa i suoi sentimenti per il promesso sposo. Gertrude agisce sotto la spinta della sua morbosa curiosità, ma anche dalla triste esperienza che, spesso, i genitori impongono le proprie scelte ai figli come è accaduto a lei.

- La storia di Gertrude allude alla reale vicenda di Marianna de Leyva (1575-1650), figlia del nobile milanese e feudatario di Monza don Martino, che fu costretta a monacarsi contro il suo volere e intrecciò in seguito una relazione con un giovane scapestrato e assassino chiamato Gian Paolo Osio: Manzoni usa come fonte privilegiata Giuseppe Ripamonti, autore nel XVII secolo di vari scritti storiografici su Milano e la peste che forniscono al romanziere anche altri dettagli per lo scenario dell'opera (è lo "storico milanese" citato all'inizio di questo capitolo).

- L'uso di costringere alla monacazione i figli cadetti per non intaccare il patrimonio avito è realmente attestato e assai diffuso nelle famiglie nobili, non solo milanesi, dell'Italia del XVII-XVIII secolo: la critica dell'autore è rivolta soprattutto alla prepotenza esercitata contro giovani innocenti dai loro padri, ma anche contro un uso distorto e a fini del tutto esecrabili della religione.


La storia di Gertrude, ovvero la tragedia dell'onore nobiliare
Immagine
Gustavino, La monaca di Monza
Il lungo flashback con cui Manzoni narra la vicenda di Gertrude nei capp. IX-X costituisce un vero e proprio "romanzo nel romanzo", in cui l'autore dà prova di grande finezza psicologica e tratteggia un personaggio a suo modo affascinante, vittima di un destino infausto e, al tempo stesso, di un travaglio interiore che la rende simile all'eroina di una tragedia (la conclusione della storia è in effetti funesta, benché i particolari più cruenti vengano sottaciuti dal romanziere). Gertrude è infatti al centro di una sorta di "cospirazione" familiare ordita dal principe padre, l'altro grande protagonista della vicenda che agisce esclusivamente in nome del suo orgoglio nobiliare: ricco gentiluomo milanese, non vuole che il patrimonio di famiglia sia disperso fra i figli cadetti e dunque li destina al chiostro incurante del loro volere, il tutto al solo fine di mantenere alto il "decoro" del casato benché, afferma l'autore, le sue sostanze siano più che sufficienti ad assicurargli una condizione adeguata al suo titolo. Il comportamento del principe trae dunque origine da quella stessa concezione di onore aristocratico che è causa di tante azioni malvage o delittuose del romanzo (a cominciare dalla persecuzione di Lucia ad opera di don Rodrigo) ed è proprio in nome di questi principi che l'uomo fa abilmente leva sul carattere debole della figlia per ottenere il suo consenso a rinchiudersi nel chiostro, anche se la giovane non sente alcuna vocazione alla vita monastica. È infatti importante sottolineare che Gertrude ha di fatto la possibilità di sottrarsi al suo destino, ma questa scelta contrasta con la sua indole altera e disdegnosa che, da un lato, la spinge a desiderare la vita del mondo con tutti i privilegi e gli onori della sua condizione sociale, dall'altro la rende incapace di rinunciare a ciò in nome della sua libertà individuale, che alla fine decide di sacrificare pur di mantenere il decoro nobiliare cui è stata educata. Del resto anche il "fallo" da lei commesso e di cui il padre abilmente approfitta per forzarla al passo desiderato (il biglietto d'amore indirizzato al paggio) acquista rilievo proprio in quanto è una violazione delle norme di comportamento della classe aristocratica, dal momento che per nessun motivo una giovane nobildonna potrebbe pubblicamente avere rapporti di tal genere con un ragazzo di condizione sociale inferiore: il principe ha buon gioco nel far leva sulla sua vergogna e sui suoi sensi di colpa, forzandola quindi ad accettare di farsi monaca per lavare l'onta che getterebbe discredito e disonore sul blasone familiare, argomento verso cui Gertrude mostra una certa sensibilità (anche lei, infatti, accetta le regole di quel mondo di cui vorrebbe far parte e prova rimorso per l'errore che sente di aver commesso, lieve dal punto di vista morale ma imperdonabile agli occhi della società aristocratica cui appartiene). La giovane potrebbe certo rifiutare di indossare il velo, ma è chiaro che in tal caso verrebbe ripudiata dalla famiglia e dovrebbe abbandonare quei privilegi cui è tenacemente attaccata e che, invece, può parzialmente mantenere diventando monaca e ricevendo un trattamento di favore all'interno del monastero: è soprattutto questo l'argomento decisivo che la spinge al passo irrevocabile che la chiude in convento, come appare chiaro al momento di scegliere se pronunciare un "no... più scandaloso che mai" oppure "ripetere un sì tante volte detto", dunque la sua "tragedia" è quella di una debole volontà che alla fine cede alla violenza altrui per l'incapacità psicologica di opporsi e, anche, per non rinunciare a una vita di privilegi che esercita su di lei una irresistibile attrattiva.
Da notare, infine, che la monacazione di Gertrude è in certo modo speculare e opposta a quella di padre Cristoforo, il quale (pur essendo di origine borghese e figlio di un ricco mercante) viveva in gioventù come un nobile e aveva ucciso un uomo in un duello nato per futili motivi di puntiglio cavalleresco: Lodovico si era pentito del suo gesto e aveva deciso di farsi frate per sincera vocazione, oltre che per espiare il delitto di cui si era macchiato, dunque aveva scelto in modo consapevole l'uscita da quel mondo aristocratico in cui aveva cercato di entrare obbedendo ai suoi "codici" di onore e cavalleria, che però lo avevano portato a spargere il sangue di un uomo innocente. A una simile scelta Gertrude non sa o meglio non vuole risolversi, perciò l'ingresso in monastero è un modo per non essere espulsa da quella classe sociale nella quale invece Lodovico non era stato ammesso e che lo aveva indotto, col suo sistema distorto di valori, a commettere un omicidio: Gertrude sceglie di "regnare all'inferno" anziché "servire in paradiso", dunque la sua vicenda è anche la tragedia di una classe sociale (l'aristocrazia feudale) che è prigioniera dei suoi codici e delle sue convenzioni, nonché di un malinteso senso dell'onore che spinge a commettere crudeltà e prevaricazioni, nonché a sottomettersi ad esse in nome di quegli stessi principi. In ciò la storia di Gertrude differisce totalmente da quella dei personaggi umili, ai quali è sottratta la possibilità di scelta che a lei, anche se tra mille ostacoli, è stata concessa: l'atteggiamento di Manzoni è, sì, di compassione benevola per l'ingiustizia che la giovane ha subìto, ma anche di ferma condanna per l'incapacità di reagire al sopruso del padre e, in seguito all'entrata in convento, per essersi lasciata trascinare in un gorgo di sotterfugi e delitti, perciò ancora una volta tutto è ricondotto alla responsabilità morale degli individui e alla necessità che questi scelgano tra "fare il torto" e "patirlo", senza cercare scusanti relative ai condizionamenti sociali o culturali (prospettiva, questa, che dominerà largamente nelle successive opere storiografiche, specie nella Storia della colonna infame). Per approfondire: S. Battaglia, La monaca di Monza personaggio moderno; A. Zottoli, La debolezza di Gertrude.


Capitolo IX
L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. - Di che cosa? - rispose quello: - siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro, - e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via.
Il nostro autore [1] non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva. Per render ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontarne in succinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover’uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l’hanno fatto trovare in altra parte. Uno storico [2] milanese (Josephi Ripamontii, Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, Cap. III, pag. 358 ss.) che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca.
I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un’osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia.
Dopo una sera quale l’abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio di una brezzolina più che autunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre di sedersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de’ contingenti bisogni d’un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt’e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s’aspettavan di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: - a rivederci, - e partì.
Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia.
- Oh! fra Cristoforo! - disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d’un grand’amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: - non c’è che la signora: se la signora vuol prendersi quest’impegno...
Tirata quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a tutt’e due: - donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v’abbia provvedute in miglior maniera. Volete venir con me?
Le donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: - bene; io vi conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perché la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con una bella giovine... con donne voglio dire.
Così dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese, la quale non poté tenersi di non fare altrettanto; e tutt’e tre si mossero, quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora.
- La signora, - rispose quello, - è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priorache anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo [3]; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.
Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso, che forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s’avviò al monastero, dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d’ore, tornasse da lui, a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattoressa [4]; e andò solo a chieder la grazia. Dopo qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed era ora, perché la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi dall’interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la signora. - E ben disposta per voi altre, - disse, - e vi può far del bene quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me -. Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di mettervi il piede, il guardiano, accennando l’uscio, disse sottovoce alle donne: - è qui, - come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò da quella parte, e vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca [5], e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento [6].
Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant’altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere.
Era essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne’ vòti; e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. - Reverenda madre, e signora illustrissima, - disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al petto: - questa è quella povera giovine, per la quale m’ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.
Le due presentate facevano grand’inchini: la signora accennò loro con la mano, che bastava, e disse, voltandosi, al padre: - è una fortuna per me il poter fare un piacere a’ nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma, - continuò; - mi dica un po’ più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si possa fare per lei.
Lucia diventò rossa, e abbassò la testa.
- Deve sapere, reverenda madre... - incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò, con un’occhiata, le parole in bocca, e rispose: - questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de’ gravi pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d’un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche...
- Quali pericoli? - interruppe la signora. - Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma [7]. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto [8].
- Sono pericoli, - rispose il guardiano, - che all’orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati...
- Oh certamente, - disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l’avesse paragonato con quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.
- Basterà dire, - riprese il guardiano, - che un cavalier prepotente... non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo ch’erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.
- Accostatevi, quella giovine, - disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. - So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest’affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso -. In quanto all’accostarsi, Lucia ubbidì subito; ma rispondere era un’altra faccenda. Una domanda su quella materia, quand’anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l’avrebbe imbrogliata non poco: proferita da quella signora, e con una cert’aria di dubbio maligno, le levò ogni coraggio a rispondere. - Signora... madre... reverenda... - balbettò, e non dava segno d’aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che, dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credé autorizzata a venirle in aiuto. - Illustrissima signora, - disse, - io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l’acqua santa: voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato fosse stato un po’ più un uomo di quelli che m’intendo io... so che parlo d’un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare...
- Siete ben pronta a parlare senz’essere interrogata, - interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. - State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!
Agnese mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca, per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine, dandole d’occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di sgranchirsi [9], e di non lasciare in secco la povera mamma.
- Reverenda signora, - disse Lucia, - quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovine che mi discorreva, - e qui diventò rossa rossa, - lo prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di metterci al sicuro, giacché siam ridotte a far questa faccia di chieder ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.
- A voi credo, - disse la signora con voce raddolcita. - Ma avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non che abbia bisogno d’altri schiarimenti, né d’altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano, - aggiunse subito, rivolgendosi a lui, con una compitezza studiata. - Anzi, - continuò, - ci ho già pensato; ed ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del monastero ha maritata, pochi giorni sono, l’ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que’ pochi servizi che faceva lei. Veramente... - e qui accennò al guardiano che s’avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: - veramente, attesa la scarsezza dell’annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola... e per una premura del padre guardiano... In somma do la cosa per fatta.
Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l’interruppe: - non occorron cerimonie: anch’io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell’assistenza de’ padri cappuccini. Alla fine, - continuò, con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d’ironico e d’amaro, - alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?
Così detto, chiamò una conversa [10] (due di queste erano, per una distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato), e le ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese. Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n’andò a scriver la lettera di ragguaglio all’amico Cristoforo. “Gran cervellino che è questa signora!” pensava tra sé, per la strada: “curiosa davvero! Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo non s’aspetterà certamente ch’io l’abbia servito così presto e bene. Quel brav’uomo! non c’è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto l’aflare a buon porto, in un batter d’occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s’accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa”.
La signora, che, alla presenza d’un provetto [11] cappuccino, aveva studiati gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese [12], che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude [13]. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: - bello eh? - Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: - che madre badessa! - Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, - tu sei una ragazzina, - le si diceva: - queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso -. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, - ehi! ehi! - le diceva; - non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre ddla signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia [14] testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano [15], esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva [16] come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de’ momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica. E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d’esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo, e d’accattar consiglio e coraggio. C’era un’altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l’anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt’altro in testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d’informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacché non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d’artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, è, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d’una gran collera del principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l’uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott’anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com’ora si direbbe, il suo piano. “O mi vorranno forzare”, pensava, “e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata”. Ma, come accade spesso di simili previdenze, non avvenne né una cosa né l’altra. I giorni passavano, senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia de’ parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l’avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.
Tali sensazioni d’oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata, e s’occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto [17] che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d’una visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c’era invito. I servitori s’uniformavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio e all’intenzioni de’ padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe.
Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.
Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare [18] la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.
In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.


Note
1. Si tratta dell'anonimo e immaginario autore dello "scartafaccio".
2. Giuseppe Ripamonti, storiografo vissuto all'inizio del XVII secolo e citato in nota dal Manzoni.
3. Espressione che indica la nascita nobiliare, la discendenza cioè da un'antica progenie.
4. Era la donna laica che si occupava dei lavori materiali all'interno del monastero.
5. Laica, mondana.
6. Vestizione, al momento della monacazione.
7. In modo oscuro, enigmatico.
8. In ogni minimo dettaglio.
9. Di essere più disinvolta, di togliersi dall'impaccio.
10. Le converse erano donne che, pur indossando il velo e vivendo nel monastero, non avevano preso i voti e svolgevano umili mansioni.
11. Esperto, conoscitore del mondo.
12. Don Martino de Leyva, feudatario di Monza e sposato con Virginia Marino, vedova di Ercole Pio di Savoia (l'attuale Palazzo Marino, sede del Consiglio Comunale di Milano, apparteneva a quella famiglia).
13. Manzoni pensa forse alla santa figlia del beato Pipino, badessa del monastero di Nivelle.
14. Di poco valore.
15. Erano cioè pronte agli intrighi.
16. Un'immagine vuota, inconsistente.
17. Una finestrella protetta da una grata.
18. Giustificare, legittimare.


fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-ix.html

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