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Capitolo XV

"Allo spuntar del giorno, Renzo russava
da circa sett'ore, ed era ancora, poveretto! sul più bello, quando due forti
scosse alle braccia, e una voce
che dappiè del letto gridava:
- Lorenzo Tramaglino! - lo fecero riscotere. Si risentì, ritirò le braccia,
aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè
del letto un uomo vestito di nero,
e due armati, uno di qua,
uno di là del capezzale..."

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I Promessi Sposi
 · 2 Apr 2018
Renzo e il notaio criminale (XIX sec.)
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Renzo e il notaio criminale (XIX sec.)

Personaggi: Renzo, l'oste della Luna Piena, il notaio criminale, il popolo di Milano

Luoghi: Milano, l'osteria della Luna Piena

Tempo: dalla sera dell'11 novembre 1628 al mattino del 12

Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino

Trama: Renzo, completamente ubriaco, viene messo a letto dall'oste della Luna Piena, che poi va a rendere testimonianza di fronte al notaio criminale, al palazzo di giustizia. Il mattino seguente il notaio va ad arrestare Renzo insieme a due birri. Mentre viene condotto via, Renzo viene liberato dall'intervento della folla e riesce a fuggire.

F. Gonin, Renzo e l'oste
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F. Gonin, Renzo e l'oste

L'oste porta Renzo a dormire

L'oste vede che le ciance di Renzo e degli altri avventori durano per le lunghe, quindi si avvicina e prega gli altri clienti di lasciarlo stare, ripetendo al giovane che è il momento di andare a dormire. Renzo riacquista un barlume di lucidità nonostante la sbornia, quindi tenta di alzarsi, barcollando, ed è sorretto dall'oste che lo aiuta a lasciare la tavola, conducendolo verso una scaletta che porta alla camera che gli ha destinato. Il giovane saluta la compagnia facendo gesti sconnessi con la mano, quindi è condotto dall'oste nella camera e, vedendo il letto, manifesta in modo bizzarro la sua contentezza al padrone della locanda. Questi pensa di approfittare del poco di lucidità che è rimasta a Renzo, invitandolo una buona volta a dirgli il suo nome come prescrive la grida, per fare un piacere a lui che vuole solo rispettare la legge: Renzo si irrita e ricomincia a inveire contro l'oste, il quale, per evitare che il giovane attiri l'attenzione degli altri avventori, si affretta a dire di avere scherzato. Renzo sembra soddisfatto e cade bocconi sul letto, completamente stremato.
L'oste aiuta Renzo a togliersi il farsetto e lo tasta bene per trovare la borsa col denaro: chiede al giovane di saldare il conto, cosa che avviene non senza fatica e pazienza da parte del locandiere. In seguito aiuta Renzo a finire di spogliarsi e gli rimbocca amorevolmente le coperte, augurandogli la buonanotte quando l'altro già russa.

F. Gonin, L'oste osserva Renzo
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F. Gonin, L'oste osserva Renzo

L'oste esce dalla locanda

L'oste alza un momento il lume su Renzo addormentato, osservandolo con attenzione come Psiche nell'atto di contemplare il dio Amore, pensando in cuor suo che il giovane si è comportato con grande stupidità e il giorno dopo si pentirà di essere stato tanto ingenuo. A quel punto esce dalla stanza, chiudendone la porta a chiave, poi chiama la moglie per dirle di scendere in cucina a badare all'osteria, mentre lui dovrà uscire a sbrigare una faccenda urgente. L'uomo spiega le sue preoccupazioni relative a Renzo, quindi aggiunge molte raccomandazioni all'ostessa circa il modo in cui dovrà comportarsi con gli avventori (badare cioè che tutti paghino, non contraddire nessuno, non mostrare interesse per le chiacchiere di politica e di sommosse che faranno tra loro, onde evitare guai in avvenire). Sceso in cucina con la moglie, l'oste indossa il mantello e prende un robusto bastone, uscendo dalla locanda dopo aver dato un'occhiata veloce a quanto sta avvenendo nel locale.

F. Gonin, L'oste in strada
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F. Gonin, L'oste in strada

L'oste pensa fra sé in strada

Uscito in strada, l'oste cammina ripensando tra sé alla stupidità mostrata dal povero Renzo: lo accusa di essere un ingenuo montanaro, che venendo alla sua osteria in compagnia di un poliziotto ha rischiato di metterlo nei guai in quella giornata così pericolosa. L'uomo scansa una pattuglia di soldati che gira nelle strade in cui ci sono ancora gruppi di popolani, quindi pensa che Renzo ha dimostrato tutta la sua inesperienza credendo che il chiasso fatto dai rivoltosi durante il giorno sia sufficiente a cambiare le cose, mentre con la sua condotta finirà per mettersi in guai seri, nonostante lui abbia tentato di salvarlo. L'oste pensa che ha voluto, sì, sapere il nome di Renzo, ma non certo per sua curiosità, dal momento che le gride che impongono obblighi agli osti sono applicate e prevedono pene molto severe, ad esempio un'ammenda di trecento scudi che devono essere versati in parte al fisco, in parte a chi abbia denunciato alle autorità l'oste trasgressore (anche lui detesta le gride, ma non è certo così ingenuo da manifestarlo a parole facendo chiasso come ha fatto Renzo nella sua osteria). Alla fine del suo soliloquio l'oste entra nel palazzo di giustizia.

L'oste e il notaio criminale (ed. 1840)
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L'oste e il notaio criminale (ed. 1840)

L'oste rende testimonianza al notaio criminale

Qui c'è un'attività frenetica, poiché gli esponenti dell'autorità pubblica cercano di prevenire ulteriori disordini di piazza il giorno seguente: si dispone una accurata sorveglianza intorno alla casa del vicario di Provvisione, viene ordinato ai fornai di vendere di nuovo il pane a buon mercato (facendone venire appositamente dal contado), e soprattutto si cerca di arrestare qualche popolano accusato di essere fra i capi della sommossa per dare l'esempio alla folla con una condanna esemplare. Il capitano di giustizia, ancora dolorante per la ferita alla testa rimediata quella mattina, è molto interessato alla questione e ha sguinzagliato in città i suoi sbirri per cercare di prendere qualche caporione della rivolta: il sedicente Ambrogio Fusella incontrato da Renzo era appunto uno di questi, che lo aveva notato mentre arringava la folla e aveva deciso di approfittare della sua ingenuità, tentando addirittura di condurlo subito in carcere con la scusa di portarlo in una locanda. Il poliziotto è riuscito comunque a riferire il nome di Renzo, così, quando l'oste va a rendere la sua deposizione a un notaio criminale, questi ne sa già più di lui.
L'oste è stupito del fatto che la giustizia sappia il nome del suo avventore, quindi il notaio lo accusa di non dire tutta la verità: gli rammenta che Renzo ha portato nella sua osteria un pane rubato durante i saccheggi e che ha proferito parole ingiuriose nei confronti delle gride e dello stemma del governatore. L'oste ribatte che il suo solo interesse è mandare avanti il suo locale e non ha il tempo di badare a tutte le chiacchiere degli avventori, quindi il notaio gli ricorda che presto i rivoltosi avranno il fatto loro e gli chiede notizie di Renzo: l'oste riferisce che il giovane sta dormendo e il magistrato gli ordina di non lasciarlo scappare, cosa che irrita non poco il padrone della taverna (il quale, tuttavia, non dice né sì né no). Dopo alcune raccomandazioni del notaio, l'oste può finalmente tornare alla sua locanda.

F. Gonin, Renzo arrestato
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F. Gonin, Renzo arrestato

Il notaio e i birri vanno ad arrestare Renzo

Il mattino dopo Renzo sta ancora dormendo profondamente, quando si sente afferrare per le braccia ed è svegliato da qualcuno che lo chiama col nome di "Lorenzo Tramaglino". Apre gli occhi e vede ai piedi del letto il notaio criminale in cappa nera (lo stesso che la sera prima ha interrogato l'oste) e al suo fianco due birri armati, che gli intimano di alzarsi senza indugio. Renzo, ancora stordito per la sbornia della sera prima, tenta di chiedere spiegazioni e di chiamare l'oste in aiuto, ma il notaio gli ordina di alzarsi e vestirsi, perché dovrà essere condotto dal capitano di giustizia.
Il giovane cerca debolmente di discolparsi dicendo di essere un galantuomo e infine inizia a vestirsi raccogliendo i panni sparsi sul letto, chiedendo al notaio di essere condotto da Ferrer: in altre circostanze il magistrato riderebbe di gusto a una simile domanda, ma si affretta a dire a Renzo che la sua richiesta sarà esaudita e lo invita a vestirsi in fretta. Il notaio ha visto infatti per le strade dei movimenti sospetti, il radunarsi di gruppi di persone che lasciano presagire nuovi tumulti, quindi il suo intento è portar via Renzo senza indurlo a far resistenza ed evitare così che il giovane possa trovare l'aiuto di altri popolani una volta in strada. Per questo il notaio fa cenno ai birri di non fare incollerire Renzo, il quale dal canto suo si veste con lentezza, per prendere tempo e raccogliere le idee nella sua mente, tanto più che dalla strada si sente provenire un ronzio confuso di popolo che si sta radunando. Il giovane si dice pronto a spiegare tutto al notaio, nel quale legge una certa preoccupazione, e il magistrato gli parla con fare manierato, dichiarando che se dipendesse da lui lo rilascerebbe all'istante, ma la legge gli impone di portarlo al palazzo di giustizia (una volta lì, tuttavia, le formalità saranno presto sbrigate e Renzo tornerà subito libero). Il giovane chiede se passeranno per la piazza del duomo, dove aveva preso appuntamento con altri popolani il giorno prima, e il notaio dice che percorreranno la via più breve.

F. Gonin, Il notaio alla finestra
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F. Gonin, Il notaio alla finestra

Il notaio cerca di blandire Renzo

Il notaio maledice la sua sfortuna giacché, in circostanze più favorevoli, approfitterebbe dell'inesperienza di Renzo per indurlo ad ammissioni compromettenti, invece la situazione gli impone di agire in fretta: egli sente un gran chiasso in strada, per cui si affaccia dalla finestra e vede un gruppo di popolani che ignora le intimazioni di una pattuglia di soldati, segno evidente che la giornata promette disordini. Per un attimo pensa di lasciare Renzo coi due birri per tornare a riferire al capitano di giustizia, poi decide di andare fino in fondo per non apparire un incapace.
Renzo intanto si è vestito e, tastando nel farsetto che tiene in mano, si accorge che mancano il denaro e la lettera di padre Cristoforo, che reclama a gran voce al notaio: questi tenta debolmente di dirgli che riavrà tutto dopo le formalità, ma Renzo insiste e il magistrato per evitare guai gli restituisce ogni cosa, al che il giovane fa osservazioni poco lusinghiere sulle cattive abitudini che lui e i birri hanno preso dai ladri. Il notaio fa cenno ai birri di non reagire e promette fra sé che Renzo pagherà cara la sua insolenza, quando sarà in suo potere.

F. Gonin, Renzo e i birri
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F. Gonin, Renzo e i birri

I birri mettono i "manichini" a Renzo

Renzo indossa il farsetto e il cappello, quindi il notaio ordina a uno dei birri di precederlo giù per le scale e poi si avvia dietro all'altro birro e al prigioniero. Una volta giunti in cucina, mentre Renzo ingenuamente cerca l'oste, i birri obbediscono a un cenno del notaio e mettono i "manichini" intorno ai polsi del giovane: si tratta di due cordicelle con nodi che avvolgono i polsi dell'arrestato, con due stanghette di legno alle estremità che vengono tenute tra il medio e l'anulare dei birri, i quali possono, al bisogno, stringere la corda per procurare dolore al prigioniero. Renzo protesta col notaio, il quale però si affretta a dire che è una pura formalità e che se dipendesse da lui ne farebbe a meno, ma è necessario agire in questa maniera. Invita Renzo ad aver pazienza e gli raccomanda, una volta che saranno usciti in strada, di camminare diritto senza guardare in giro, per non mostrare di essere arrestato e non guastare il proprio onore, mentre ai birri intima di trattare Renzo con rispetto, dal momento che è un giovane perbene che sarà presto libero. Renzo naturalmente ha capito che il notaio teme che possa trovare aiuto da parte di qualche popolano in strada, per cui non crede neppure a una parola di quanto detto dal magistrato e si ripromette, una volta uscito dalla locanda, di far tutto il contrario di quanto raccomandatogli. L'autore aggiunge alcune osservazioni ironiche circa il fatto che i furbi di professione, come il notaio che è ben conosciuto dall'anonimo autore del manoscritto, nei momenti di fretta e angustia non sono in grado di usare tutta l'astuzia di cui sono capaci nelle normali circostanze, ed è questo il motivo per il notaio finisce per fare quella figura così meschina e ridicola agli occhi del lettore.

F. Gonin, Renzo richiama la folla
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F. Gonin, Renzo richiama la folla

La fuga di Renzo

Una volta che i quattro sono usciti in strada, dunque, Renzo inizia a voltarsi da una parte e dall'altra, in cerca di un aiuto da parte della folla: non ci sono disordini in atto e molti passanti tirano dritto senza fermarsi, mentre il notaio si affretta a suggerire a Renzo di non dare nell'occhio, di osservare un contegno che non sia per lui disonorevole. A un tratto però Renzo vede arrivare tre popolani che parlano di farina nascosta, di forni, di giustizia, perciò inizia a tossire in modo insistente per attirare la loro attenzione: i tre si fermano e si uniscono a loro altri passanti, mentre il notaio raccomanda vanamente a Renzo di non dare nell'occhio benché il giovane, intanto, faccia di tutto per farsi notare. I birri danno una stretta ai "manichini" e Renzo urla di dolore, attirando infine una piccola folla che circonda con fare minaccioso la comitiva: il notaio dice che si tratta di un ladro colto sul fatto, ma Renzo, che ha visto i birri impallidire, coglie al volo l'occasione e grida che è portato in prigione perché il giorno prima ha gridato "pane e giustizia", chiedendo infine l'aiuto dei popolani.
I birri dapprima chiedono alla folla di lasciarli passare, poi però, vista la mala parata, lasciano andare i "manichini" e cercano di allontanarsi, mescolandosi ai rivoltosi. Il notaio cerca di fare lo stesso, ma la cappa nera che indossa gli rende difficile passare inosservato: cerca di fingere indifferenza e di sottrarsi alla calca, finché un popolano lo indica come un "corvaccio" (un magistrato) e aizza la folla contro di lui, anche se il notaio riesce per miracolo a scappare e a evitare il linciaggio.

Temi principali e collegamenti


- Il protagonista della prima parte del capitolo è ancora l'oste della Luna Piena, astuto levantino abile a proteggere i suoi affari e ad evitare conseguenze legali: mette a letto Renzo, senza scordare di farsi pagare il dovuto (sa bene che il giorno dopo il suo cliente avrà altro a cui pensare) e poi va a chiarire la sua posizione con la giustizia, non prima di aver raccomandato alla moglie la condotta più prudente da osservare con la marmaglia che ancora è presente nella sua osteria. Nel successivo soliloquio in strada riassume in sintesi la sua visione del mondo, accusando Renzo di essere un "asino" venuto a guastagli gli affari nella locanda, mentre nel confronto col notaio criminale dimostra astuzia e diplomazia, come già ha fatto col poliziotto nell'osteria.

- Il paragone tra l'oste (che osserva alla luce del lume Renzo che dorme) e Psiche (che contempla Amore secondo il racconto mitologico) suona decisamente ironico e rientra in quella degradazione dei miti classici che è presente in Manzoni dopo la conversione, specie per suscitare effetti comici (anche se qui, forse, l'immagine non è del tutto appropriata).

- Il notaio si presenta in modo decisamente diverso nella prima e nella seconda parte dell'episodio: quando interroga l'oste, circondato dai suoi birri al palazzo di giustizia, ha un atteggiamento protervo e tracotante, minaccia severi castighi a tutti i rivoltosi e tenta di convincere l'interlocutore (o forse se stesso) che la giustizia è padrona di Milano; di fronte a Renzo, nel timore dei disordini di piazza, ha un'aria docile e sottomessa, tentando di convincerlo a collaborare nella speranza di condurlo via in fretta (e alla fine resterà scornato, oltre ad essere ridicolizzato dal romanziere).

- La lettera di padre Cristoforo che il notaio restituisce a Renzo verrà citata dal mercante all'osteria di Gorgonzola (cap. XVI), anche se essa verrà deformata dalle dicerie popolari sino a diventare un "fascio di lettere", ora in mano alla giustizia e in cui sarebbe descritta "tutta la cabala". Renzo imprecherà in seguito contro le chiacchiere del mercante, affermando che la lettera è stata scritta da un "religioso" di gran valore e non parla certo di sedizioni o complotti.

P. Koninck, Scena di osteria
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P. Koninck, Scena di osteria

La "visione del mondo" dell'oste della Luna Piena

Protagonista della prima parte del capitolo è l'oste, il quale dapprima si lascia andare a un muto soliloquio mentre cammina per strada, nel quale sintetizza la sua visione delle cose e il suo rapporto con le leggi e l'autorità, in seguito affronta il notaio criminale e dà prova della stessa abilità di dissimulare già dimostrata poco prima, quando ha avuto a che fare col poliziotto nella sua taverna. L'oste è un uomo smaliziato e astuto, che conosce bene il mondo e, soprattutto, sa per esperienza che le sollevazioni popolari non rimediano alle ingiustizie, finiscono anzi per causare altri danni agli umili: egli è rassegnato al fatto che le gride non contano nulla e restano normalmente inapplicate, tranne quelle "contro gli osti" che invece "contano" e prevedono pene pecuniarie assai severe, anche se è implicito che esse non hanno alcuna reale utilità per combattere i crimini (è il motivo per cui ha insistito con Renzo per farsi dire il suo nome, oltre che per compiacere lo sbirro presente nella sua osteria). L'oste protegge i suoi interessi ed è abituato ad usare la diplomazia (la "politica", come afferma tra sé) per non rischiare di esporsi in prima persona, come raccomanda alla moglie prima di lasciare la taverna per recarsi al palazzo di giustizia: il suo sistema di vita consiste nel collaborare occasionalmente con i rappresentanti della legge senza preoccuparsi se ciò sia giusto o meno, ed è per questo che ai suoi occhi Renzo si è comportato come un "asino", come un contadino ignorante che si è montato la testa dopo aver visto i disordini di piazza e si è illuso che il mondo potesse cambiare, mentre lui, da uomo esperto che conosce la vita, sa bene che l'indomani tutto rientrerà nella norma e un certo numero di capipopolo saranno arrestati e giustiziati senza tante cerimonie (poco importa se siano colpevoli o meno, l'unica cosa che interessa all'oste è che non ne vada di mezzo lui, che la sua osteria non sia messa "sottosopra"). Egli non è tratteggiato come un personaggio del tutto negativo, ma appare chiaro che la sua inerzia di fronte alle storture del sistema giudiziario e la sua interessata condiscendenza ai meccanismi perversi della giustizia sommaria è in parte condannata dall'autore, dal momento che l'oste bada solo ai suoi interessi materiali e, come uomo di città, non dimostra quella carità che si è vista invece nel barcaiolo o nel barocciaio, pronti ad aiutare Renzo e le due donne in maniera del tutto disinteressata (è la consueta caratterizzazione negativa dell'ambiente urbano, come anche dei personaggi che si muovono in questo spazio e sono ben diversi dagli abitanti della campagna).
L'oste è anche assai abile nell'arte della simulazione, come si vede quando giunge al palazzo di giustizia e rende la sua deposizione al notaio criminale, cosa che fa per evitar guai e non certo per amore della legge (l'autore precisa che l'uomo è di casa in quel luogo e, dunque, ha fatto la stessa cosa più volte a causa della sua professione): risponde a tutte le domande del notaio, affettando una cerimoniosa cortesia che stride con il disprezzo da lui dimostrato nel precedente soliloquio contro gli esponenti dell'autorità, che ai suoi occhi rappresentano un intralcio ai suoi affari; di fronte al notaio che si comporta in modo arrogante e cerca di convincerlo che la giustizia sarà implacabile contro i rivoltosi, l'oste ostenta una certa indifferenza, non dicendo "né sì né no" e ripetendo spesso di non saper nulla, di badare solo a far l'oste, di non aver mai avuto a che fare con la legge (ma intanto non rinuncia a esprimere la sua visione del mondo e dice che "il re sarà sempre il re" e "chi avrà riscosso, avrà riscosso", aggiungendo poi con una punta di ironia malevola che "a lor signori tocca", in quanto hanno la forza). In fondo egli si fa elegantemente beffe del notaio, che ostenta una "forza" che la giustizia non ha e che arriva al punto di ordinare all'oste di sorvegliare Renzo e di non farlo scappare dalla locanda, dimostrando tutta la sua impotenza e suscitando l'irritazione del taverniere che, tuttavia, non lascia trasparire nulla sul suo viso; la conclusione del dialogo è significativa, in quanto l'oste lascia intendere che tutto ciò che gli preme è far sapere al capitano di giustizia che è venuto a fare il suo dovere, mentre si congeda dal notaio con un ipocrita "Bacio le mani a vossignoria", che suona comico se paragonato alle parole irriguardose pensate poco prima contro i delatori che causano guai agli osti che trasgrediscono le gride. Alla fine il vero vincitore morale di questa partita subdola con la giustizia è proprio l'oste, che (pur non giudicato in modo benevolo dal narratore) riesce a difendere i suoi interessi ed esce senza troppi danni dalla situazione rischiosa in cui Renzo lo ha messo senza volerlo, mentre il notaio criminale dimostrerà tutta la sua piccolezza e miseria morale quando andrà ad arrestare Renzo, finendo scornato e fallendo in tutti i suoi stratagemmi (la vera "forza" è dunque quella dell'astuzia dell'oste, non quella della legge che viene sbeffeggiata e dimostra la sua impotenza di fronte alla violenza che regna nelle strade di Milano).


Capitolo XV
L’oste, vedendo che il gioco andava in lungo, s’era accostato a Renzo; e pregando, con buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l’andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co’ buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po’ più distintamente il bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po’ di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n’era andato: a un di presso come l’ultimo moccolo rimasto acceso d’un’illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d’alzarsi; sospirò, barcollò; alla terza, sorretto dall’oste, si rizzò. Quello, reggendolo tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un lume, con l’altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l’uscio di scala. Lì Renzo, al chiasso de’ saluti che coloro gli urlavan dietro, si voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e, con l’altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo nell’aria certi saluti, a guisa d’un nodo di Salomone [1].
- Andiamo a letto, a letto, - disse l’oste, strascicandolo; gli fece imboccar l’uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l’aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste, con due occhietti che ora scintillavan più che mai, ora s’eclissavano, come due lucciole; cercò d’equilibrarsi sulle gambe; e stese la mano al viso dell’oste, per prendergli il ganascino, in segno d’amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. - Bravo oste! - gli riuscì però di dire: - ora vedo che sei un galantuomo: questa è un’opera buona, dare un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m’hai fatta, sul nome e cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch’io son furbo la mia parte...
L’oste, il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo. - Figliuolo caro, - disse, con una voce e con un fare tutto gentile: - non l’ho fatto per seccarvi, né per sapere i fatti vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e... Di che si tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a me: via; qui tra noi, a quattr’occhi, facciam le nostre cose; ditemi il vostro nome, e... e poi andate a letto col cuor quieto.
- Ah birbone! - esclamò Renzo: - mariolo! tu mi torni ancora in campo con quell’infamità del nome, cognome e negozio!
- Sta’ zitto, buffone; va’ a letto, - diceva l’oste.
Ma Renzo continuava più forte: - ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta, aspetta, che t’accomodo io -. E voltando la testa verso la scaletta, cominciava a urlare più forte ancora: - amici! l’oste è della...
- Ho detto per celia, - gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto: - per celia; non hai inteso che ho detto per celia?
- Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia... Son proprio celie -. E cadde bocconi sul letto.
- Animo; spogliatevi; presto, - disse l’oste, e al consiglio aggiunse l’aiuto; che ce n’era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle), l’oste l’agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c’era il morto [2]. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto a fare i conti con tutt’altri che con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di concluder quest’altro affare.
- Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è vero? - disse.
- Buon figliuolo, galantuomo, - rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potuto levare.
- Bene, - replicò l’oste: - saldate ora dunque quel poco conticino, perché domani io devo uscire per certi miei affari...
- Quest’è giusto, - disse Renzo. - Son furbo, ma galantuomo... Ma i danari? Andare a cercare i danari ora!
- Eccoli qui, - disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi.
- Dammi una mano, ch’io possa finir di spogliarmi, oste, - disse Renzo. - Lo vedo anch’io, ve’, che ho addosso un gran sonno.
L’oste gli diede l’aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli disse sgarbatamente - buona notte, - che già quello russava. Poi, per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell’atto a un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. - Pezzo d’asino! - disse nella sua mente al povero addormentato: - sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.
Così detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l’uscio a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l’ostessa; alla quale disse che lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a far le sue veci. - Bisogna ch’io vada fuori, in grazia d’un forestiero capitato qui, non so come diavolo, per mia disgrazia, - soggiunse; e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: - occhio a tutto; e sopra tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di tutti i colori. Basta, se qualche temerario...
- Oh! non sono una bambina, e so anch’io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire...
- Bene, bene; e badar che paghino; e tutti que’ discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perché, se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più grosse... Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire: vengo; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte. Io cercherò di tornare più presto che posso.
Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un’occhiata in giro, per veder se c’era novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un randello da un cantuccio, ricapitolò, con un’altra occhiata alla moglie, l’istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni, aveva ripreso, dentro di sé, il filo dell’apostrofe cominciata al letto del povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada.
“Testardo d’un montanaro!” Ché, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo, questa qualità si manifestava da sé, nelle parole, nella pronunzia, nell’aspetto e negli atti. “Una giornata come questa, a forza di politica [3], a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e dovevi venir tu sulla fine, a guastarmi l’uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio, per questa sera; e domattina t’avrei fatto intender la ragione. Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio!”
A ogni passo, l’oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sé: “eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c’è mancato poco che non m’hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una mia curiosità! Cosa m’importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a voler le cose a modo vostro. Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per ispenderli così bene; da esser applicati [4], per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusatore o delatore: quel bel cecino [5]! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all’arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie”.
A queste parole, l’oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.
Lì, come a tutti gli altri ufizi, c’era un gran da fare: per tutto s’attendeva a dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare i pretesti e l’ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite a adoprarla. S’accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S’ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedirono staffette a’ paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl’inquieti, con l’autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d’acqua vulneraria [6] sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto l’oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come avete visto. Poté però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e patria, oltre cent’altre belle notizie congetturali; dimodoché, quando l’oste capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno a Renzo, ne sapevan già più di lui. Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo nome.
- Avete fatto il vostro dovere a informar la giustizia -; disse un notaio criminale, mettendo giu la penna, - ma già lo sapevamo.
“Bel segreto!” pensò l’oste: “ci vuole un gran talento!” - E sappiamo anche, - continuò il notaio, - quel riverito nome.
“Diavolo! il nome poi, com’hanno fatto?” pensò l’oste questa volta.
- Ma voi, - riprese l’altro, con volto serio, - voi non dite tutto sinceramente.
- Cosa devo dire di più?
- Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.
- Vien uno con un pane in tasca; so assai dov’è andato a prenderlo. Perché, a parlar come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.
- Già; sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?
- Cosa ho da provare io? io non c’entro: io fo l’oste.
- Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti contro l’arme di sua eccellenza [7].
- Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l’ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di domandargli il suo nome.
- Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.
- Come vuole vossignoria ch’io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che parlan tutti insieme? Io devo attendere a’ miei interessi, che sono un pover’uomo. E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e...
- Sì, sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il ruzzo [8]. Cosa credete?
- Io non credo nulla.
- Che la canaglia sia diventata padrona di Milano?
- Oh giusto!
- Vedrete, vedrete.
- Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.
- Avete ancora molta gente in casa?
- Un visibilio.
- E quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a preparar tumulti per domani?
- Quel forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.
- Dunque avete molta gente... Basta; badate a non lasciarlo scappare.
“Che devo fare il birro io?” pensò l’oste; ma non disse né sì né no.
- Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, - riprese il notaio.
- Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla giustizia.
- E non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.
- Io? per carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste.
- La solita canzone: non avete mai altro da dire.
- Che ho da dire altro? La verità è una sola.
- Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato.
- Cosa ho da informare? io non so nulla; appena appena ho la testa da attendere ai fatti miei.
- Badate a non lasciarlo partire.
- Spero che l’illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria.
Allo spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett’ore, ed era ancora, poveretto! sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del letto gridava : - Lorenzo Tramaglino! - , lo fecero riscotere. Si risentì, ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta [9] di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto.
- Ah! avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino? - disse l’uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera avanti. - Animo dunque; levatevi, e venite con noi.
- Lorenzo Tramaglino! - disse Renzo Tramaglino: - cosa vuol dir questo? Cosa volete da me? Chi v’ha detto il mio nome?
- Meno ciarle, e fate presto, - disse uno de’ birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio.
- Ohe! che prepotenza è questa? - gridò Renzo, ritirando il braccio. - Oste! o l’oste!
- Lo portiam via in camicia? - disse ancora quel birro, voltandosi al notaio.
- Avete inteso? - disse questo a Renzo: - si farà così, se non vi levate subito subito, per venir con noi.
- E perché? - domandò Renzo.
- Il perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia.
- Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio...
- Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete andarvene per i fatti vostri.
- Mi lascino andare ora, - disse Renzo: - io non ho che far nulla con la giustizia.
- Orsù, finiamola! - disse un birro.
- Lo portiamo via davvero? - disse l’altro.
- Lorenzo Tramaglino! - disse il notaio.
- Come sa il mio nome, vossignoria?
- Fate il vostro dovere, - disse il notaio a’ birri; i quali misero subito le mani addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto.
- Eh! non toccate la carne d’un galantuomo, che...! Mi so vestir da me.
- Dunque vestitevi subito, - disse il notaio.
- Mi vesto, - rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e là i panni sparsi sul letto, come gli avanzi d’un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo: - ma io non ci voglio andare dal capitano di giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacché mi si fa quest’affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni [10].
- Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, - rispose il notaio. In altre circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d’una richiesta simile; ma non era momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d’una sollevazione non del tutto sedata, o princìpi d’una nuova: uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d’amore e d’accordo; giacché, se si fosse venuti a guerra aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi tre contr’uno. Perciò dava d’occhio a’ birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi, come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perché la giustizia avesse preso tant’animo, da venire a colpo sicuro, a metter le mani addosso a uno de’ buoni figliuoli che, il giorno avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti addormentati, poiché Renzo s’accorgeva anche lui d’un ronzìo crescente nella strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese [11], come per tirare in lungo, e anche per tentare un colpo, disse: - vedo bene cos’è l’origine di tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un po’ allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta d’altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio nome. Chi diamine gliel ha detto?
- Bravo, figliuolo, bravo! - rispose il notaio, tutto manieroso: - vedo che avete giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che tant’altri. È la miglior maniera d’uscirne presto e bene: con codeste buone disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io, vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei. Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e poi io dirò... Lasciate fare a me... Basta; sbrigatevi, figliuolo.
- Ah! lei non può: intendo, - disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con de’ cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo spicciare.
- Passeremo dalla piazza del duomo? - domandò poi al notaio.
- Di dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà, - disse quello, rodendosi dentro di sé, di dover lasciar cadere in terra quella domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni. “Quando uno nasce disgraziato!” pensava. “Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po’ di respiro che s’avesse, così extra formam [12], accademicamente, in via di discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda [13], quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell’e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l’appunto capitare in un momento così angustiato. Eh! non c’è scampo”, continuava a pensare, tendendo gli orecchi, e piegando la testa all’indietro: “non c’è rimedio; e’ risica d’essere una giornata peggio di ieri”. Ciò che lo fece pensar così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non poté tenersi di non aprir l’impannata, per dare un’occhiatina. Vide ch’era un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l’impannata, e stette un momento in forse, se dovesse condur l’impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de’ due birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva. “Ma”, pensò subito, “mi si dirà che sono un buon a nulla, un pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere!”
Renzo era levato; i due satelliti gli stavano a’ fianchi. Il notaio accennò a costoro che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: - da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.
Anche Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra nelle tasche. - Ohe! - disse, guardando il notaio, con un viso molto significante: - qui c’era de’ soldi e una lettera. Signor mio!
- Vi sarà dato ogni cosa puntualmente, - disse il notaio, dopo adempite quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.
- No, no, no, - disse Renzo, tentennando il capo: - questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.
- Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto, - disse il notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra’ denti: - alla larga! bazzicate tanto co’ ladri, che avete un poco imparato il mestiere -. I birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli occhi, e diceva intanto tra sé: “se tu arrivi a metter piede dentro quella soglia, l’hai da pagar con usura, l’hai da pagare”.
Mentre Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un de’ birri, che s’avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi l’altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice: - e quest’oste benedetto dove s’è cacciato? - il notaio fa un altro cenno a’ birri; i quali afferrano, l’uno la destra, l’altro la sinistra del giovine, e in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di dover dlscendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po’ più che il giro d’un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con ciò aveva mezzo, non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi.
Renzo si divincola, grida: - che tradimento è questo? A un galantuomo...! - Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, - abbiate pazienza, - diceva: - fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di voi. Abbiate pazienza.
Mentre parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a’ legnetti. Renzo s’acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le morse, e esclamò: - pazienza!
- Bravo figliuolo! - disse il notaio: - questa è la vera maniera d’uscirne a bene. Cosa volete? è una seccatura; lo vedo anch’io; ma, portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacché vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s’avvede di quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un’ora voi siete in libertà: c’è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi parlerò io... Ve n’andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi altri, - continuò poi, voltandosi a’ birri, con un viso severo: - guardate bene di non fargli male, perché lo proteggo io: il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo, un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s’avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso -. E, con tono imperativo, e con sopracciglio minaccioso, concluse: - m’avete inteso -. Voltatosi poi a Renzo, col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: - giudizio; fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo -. E la comitiva s’avviò.
Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, né che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, né che avesse intenzion d’aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani, metteva innanzi que’ bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da approfittarne. Dimodoché tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario.
Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre un altro a fare una cosa per sé sospetta, fosse andato suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di dargli un parere disinteressato, da amico. Ma è una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe fare per levarli d’impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que’ ritrovati maestri, quelle belle malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza d’animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l’applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta, all’impazzata, senza garbo né grazia. Di maniera che a uno che li veda ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l’uomo che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sé, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a’ furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d’esser sempre i più forti, che è la più sicura.
Renzo adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non c’era però concorso straordinario [14]; e benché sul viso di più d’un passeggiero si potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c’era.
- Giudizio, giudizio! - gli susurrava il notaio dietro le spalle: - il vostro onore; l’onore, figliuolo -. Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con visi accesi, sentì che parlavan d’un forno, di farina nascosta, di giustizia, cominciò anche a far loro de’ cenni col viso, e a tossire in quel modo che indica tutt’altro che un raffreddore. Quelli guardarono più attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglìo, tornavano indietro, e facevan coda.
- Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione, - continuava a susurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.
- Ahi! ahi! ahi! - grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. - È un malvivente, - bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: - è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia -. Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, “se non m’aiuto ora, pensò, mio danno”. E subito alzò la voce: - figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli!
Un mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più. Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: - cos’è stato?
- Uh corvaccio! [15] - rispose colui. - Corvaccio! corvaccio! - risonò all’intorno. Alle grida s’aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in quel momento, d’esser fuori di quel serra serra.

Note
1. Si tratta di un nodo molto complicato, qui usato come similitudine per indicare il ghirigoro disegnato da Renzo per aria con la mano.
2. La borsa col denaro (l'espressione è gergale, tipica dei borsaioli come quelli che frequentano l'osteria).
3. Diplomazia.
4. Versati.
5. Bel tipo, bel soggetto (l'oste pensa probabilmente al poliziotto, che ha certo riferito tutto sul conto di Renzo).
6. Una compressa intrisa di acqua medicamentosa (la ferita è quella prodotta dalla sassata rimediata dal capitano al forno delle Grucce, nel cap. XII).
7. Lo stemma di don Gonzalo, governatore di Milano (era riportato sulla copia della grida mostrata dall'oste a Renzo).
8. La voglia di provocare tumulti.
9. Il cerchio alla testa provocato dalla sbornia.
10. Mi è debitore (Renzo pensa assurdamente all'aiuto da lui offerto durante il salvataggio del vicario, il giorno prima).
11. Scoprire il gioco del suo avversario.
12. In modo ufficioso, senza formalità.
13. Senza ricorrere alla tortura.
14. Una gran folla, un grande assembramento di popolo.
15. L'epiteto, ovviamente canzonatorio, allude al mantello nero indossato dai magistrati.

fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xv.html

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