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Capitolo XXI

"- Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia,
andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare,
l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole,
avevan messo un nuovo spavento
nell'animo spaventato, stava più che mai
raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta. - Alzatevi, ché non voglio
farvi del male... e posso farvi del bene, -
ripeté il signore..."

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I Promessi Sposi
 · 2 Apr 2018
N. Cianfanelli, Lucia e l'innominato
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N. Cianfanelli, Lucia e l'innominato

Personaggi: Lucia, l'innominato, il Nibbio, la vecchia del castello, bravi, Marta

Luoghi: Il castello dell'innominato

Tempo: Novembre 1628

Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: La vecchia conduce Lucia nella propria stanza, al castello. Il Nibbio confessa all'innominato che Lucia gli ha ispirato compassione. L'innominato va a visitare Lucia e questa lo implora in ginocchio di liberarla. La giovane trascorre una notte di disperazione e pronuncia il voto di verginità alla Madonna. L'innominato è preda di angoscia e rimorsi, poi sente uno scampanio e vede i paesani che accorrono dal cardinal Borromeo.

F. Gonin, Lucia nella carrozza
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F. Gonin, Lucia nella carrozza

La vecchia accoglie Lucia al castello

La vecchia corre a eseguire gli ordini dell'innominato e tutti le obbediscono al solo sentire il nome del padrone, poiché nessuno se ne servirebbe in modo falso: la donna giunge con la portantina alla Malanotte poco prima dell'arrivo della carrozza, quindi ferma il cocchiere e sussurra gli ordini del padrone all'orecchio del Nibbio. Lucia si scuote da una specie di torpore e vede il volto della vecchia che si affaccia allo sportello della carrozza e la invita a scendere con voce raddolcita, cosa che induce i bravi a spingere la loro prigioniera a obbedire. La ragazza è spaventata e vorrebbe urlare, ma il Nibbio la minaccia di soffocarle di nuovo il grido col fazzoletto, quindi Lucia viene fatta scendere dalla carrozza e sale sulla portantina, seguita subito dopo dalla vecchia. Il Nibbio inizia a salire velocemente lungo l'erta, con gli altri due bravi che gli vanno dietro, mentre la portantina sale a sua volta verso il castello e Lucia, all'interno, continua a chiedere alla vecchia chi sia e dove la stia conducendo. La donna cerca di consolarla e di "farle coraggio" come il padrone le ha comandato, anche se Lucia non si tranquillizza affatto e la prega più volte di liberarla, invocando anche il santo nome di Maria (al sentirlo la vecchia riceve una strana impressione dentro di sé, come un vecchio cieco che ricordi la luce).

F. Gonin, Il Nibbio a rapporto
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F. Gonin, Il Nibbio a rapporto

L'innominato parla col Nibbio

Intanto l'innominato è in piedi alla porta del castello e guarda la portantina avanzare, mentre il Nibbio la precede a passi rapidi e in breve raggiunge il padrone, appartandosi con lui in una sala all'interno della fortezza. Il bravo fa il suo rapporto sull'azione compiuta, sottolineando che tutto si è svolto secondo i piani, anche se, ammette, avrebbe preferito uccidere Lucia anziché vederla in viso e sentirla parlare: l'innominato chiede spiegazioni e il Nibbio afferma che la giovane gli ha ispirato compassione, cosa che stupisce non poco il padrone secondo cui il suo sgherro non dovrebbe sapere di che cosa si tratta. Il Nibbio dichiara che la compassione è come la paura e quando uno ne è preda non è più uomo, come ha sperimentato egli stesso nel lungo viaggio da Monza in cui ha sentito Lucia piangere e disperarsi, e l'ha vista impallidire dal terrore e quasi morire. L'innominato pensa tra sé che non vuole avere nel suo castello quella prigioniera ed è sul punto di ordinare al Nibbio di correre subito al palazzo di don Rodrigo, ma poi qualcosa dentro di lui lo trattiene e si limita a mandare il bravo a riposarsi, in attesa di nuovi ordini che riceverà l'indomani mattina. Rimasto solo, il bandito inizia a rodersi e a chiedersi quale demonio protegga quella ragazza che ha sconvolto a tal punto il suo uomo, ripromettendosi di mandarla via il mattino dopo e pensando che ha servito don Rodrigo perché lo ha promesso e perché questo in fondo è il suo destino, mentre medita di chiedere al signorotto una ricompensa scabrosa a compenso di questa inquietudine che lo tormenta.

Gustavino, Lucia prega l'innominato
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Gustavino, Lucia prega l'innominato

L'innominato va da Lucia

L'innominato continua a pensare alla compassione ispirata da Lucia al Nibbio ed è preso dal desiderio di vederla, perciò si reca a passi rapidi alla camera della vecchia dove la giovane è tenuta prigioniera. Giunge alla porta e bussa con un calcio, al che la vecchia corre ad aprire e il bandito si affaccia sulla soglia, vedendo Lucia rannicchiata a terra in un punto lontano dalla porta: irritato, l'uomo rimprovera la vecchia per aver lasciato la ragazza in quelle condizioni, ma la donna si difende dicendo che Lucia si è messa dove ha voluto e che lei non ha mancato di farle coraggio. L'innominato ordina con voce severa a Lucia di alzarsi, anche se la giovane non si muove e resta tremante con la testa tra le mani, ancor più spaventata dall'arrivo di quell'uomo; egli rinnova l'invito dicendole che non intende farle del male, al che Lucia si scuote e si inginocchia a mani giunte di fronte al bandito, invitandolo a ucciderla. L'innominato torna a dire che non vuol farle del male e Lucia si lamenta del fatto di essere stata rapita e condotta in quel luogo, dove patisce le pene dell'inferno, chiedendo infine pietà al suo sequestratore in nome di Dio. L'uomo è irritato al sentire quella parola e rimprovera Lucia di volergli incutere timore invocando quel Dio che lui non riconosce, ma la giovane torna a supplicare l'innominato di liberarla e di rimandarla da sua madre, che potrebbe non essere lontana da lì poiché lei ha visto le sue montagne durante il viaggio da Monza. Lucia crede di vedere un'ombra di compassione sul volto del suo rapitore e lo invita a dire solo una parola per liberarla, poiché "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia".
L'innominato si rammarica del fatto che Lucia non sia figlia di uno dei suoi nemici e la giovane, rincuorata dalla sua esitazione, torna a pregarlo di liberarla, venendo poi consolata dal bandito con un tono talmente raddolcito che la vecchia non crede alle proprie orecchie. L'uomo non promette nulla e si limita a dire "domattina", quindi conforta Lucia dicendo che una donna presto le porterà da mangiare e poi si rivolge alla vecchia, ordinandole con tono imperioso di tenere "allegra" la giovane e di farla mangiare, quindi di metterla a dormire nel suo letto e di passare la notte sul pavimento, se Lucia non la vorrà con sé. L'uomo ammonisce la vecchia a far sì che la giovane non si lamenti del suo operato, quindi esce dalla stanza prima che Lucia possa avere il tempo di trattenerlo.

F. Gonin, Lucia e la vecchia
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F. Gonin, Lucia e la vecchia

Lucia sola con la vecchia

Lucia prega la vecchia di chiudere subito la porta, quindi torna a rannicchiarsi in un cantuccio e chiede alla sua carceriera di dirle il nome di quel signore: la vecchia, irritata dalle domande della prigioniera, rifiuta di rispondere per non avere guai e tra sé maledice le giovani donne, che suscitano la commozione negli uomini e hanno sempre ragione. Poi sente Lucia singhiozzare e cerca di consolarla, dicendole che molti sarebbero felici di sentire le parole che il padrone le ha appena rivolto e ricordandole che tra poco porteranno da mangiare, sicuramente delle pietanze appetitose. Poi Lucia potrà andare a letto e, aggiunge la donna, spera che le lascerà un angolo anche per lei, ma la ragazza ribatte di non voler mangiare né dormire e chiede di essere lasciata in pace, al che la vecchia si siede su una seggiola e lancia occhiate astiose alla prigioniera, stizzita del fatto che forse non potrà stendersi a letto e consolandosi all'idea che potrà godere anche lei della cena.
Lucia è come stordita e non prova né fame né freddo, simile a un febbricitante in preda al delirio: a un tratto sente bussare e, atterrita, esorta la vecchia a non fare entrare nessuno, ma la donna dice che è Marta con la cena e, aperta la porta, prende dall'altra donna una cesta che ripone su un tavolo al centro della stanza, dopo aver richiuso l'uscio. La vecchia inizia a mangiare avidamente invitando Lucia a unirsi a lei e lodando la squisitezza dei cibi e del vino, anche se la ragazza non vuol saperne di consumare la cena; la donna termina il suo pasto, quindi invita Lucia a venire a letto, anche se la giovane rifiuta e si limita a chiedere se la porta è ben chiusa, alzandosi e facendo per andare all'uscio a controllare. La vecchia la precede e le mostra il paletto saldo nella serratura, quindi esorta ancora Lucia ad andare a letto e a non voler restare accucciata come un cane per terra, anche se la ragazza rifiuta risolutamente e rimane sul pavimento. La vecchia si stende a letto e si mette sulla sponda, lasciando un po' di spazio a Lucia nel caso cambiasse idea, quindi si mette vestita sotto le coperte e, dopo poco tempo, tutto tace.

F. Gonin, Lucia in preghiera
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F. Gonin, Lucia in preghiera

La notte angosciosa di Lucia: il voto di verginità

Lucia rimane immobile nella semi-oscurità, con il volto nascosto tra le mani e raggomitolata su se stessa, in preda a uno stato intermedio tra la veglia e un sonno popolato da torbide immagini e pensieri. Dopo un lungo periodo di angoscia, in cui passa dalla coscienza della sua situazione alla paura per l'incerto avvenire, la ragazza cade a terra stremata e sembra addormentarsi, anche se subito dopo si scuote per riprendere padronanza di sé: tende l'orecchio e sente il russare regolare della vecchia, mentre la luce incerta del lucignolo che sta per spegnersi getta ombre sinistre e confuse sugli oggetti della stanza. Riacquista così piena coscienza della sua terribile situazione e si rammenta di tutto ciò che è successo nella giornata, provando una tale angoscia che desidera di morire; poi però è presa da una nuova volontà di preghiera e, riguadagnando speranza, prende la corona del rosario e inizia a sgranarlo recitando sottovoce le orazioni, mentre poco a poco sente nascere in cuore una nuova, indeterminata fiducia.
A un tratto Lucia si rende conto che forse le sue preghiere sarebbero più facilmente accolte se promettesse qualcosa in cambio e poiché si rende conto che ciò che ha o ha avuto di più caro è l'amore per Renzo, decide di fare sacrificio di esso con un voto alla Madonna. Si alza da terra e si inginocchia sul pavimento, con le mani giunte da cui pende la corona del rosario, quindi solleva gli occhi al cielo e chiede a Maria di salvarla da questo pericolo facendola tornare dalla madre, promettendo in cambio di restare vergine e di rinunciare a sposare Renzo, proposito per il quale pronuncia un voto solenne. In seguito la giovane si mette il rosario intorno al collo e si siede a terra, sentendo nascere dentro di sé una nuova e più profonda tranquillità, specie ripensando alle parole dell'innominato che le ha detto "domattina" e che lei ora interpreta come una promessa di salvezza. Stremata da tante emozioni, alla fine si addormenta quando ormai sta spuntando il giorno e con il nome di Maria tra le labbra.

G.B. Galizzi, L'angoscia dell'innominato
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G.B. Galizzi, L'angoscia dell'innominato

La notte angosciosa dell'innominato: il pensiero del suicidio

Anche l'innominato vorrebbe dormire come Lucia, in un'altra stanza del suo castello, tuttavia non vi riuscirà per tutta la notte. Dopo essere quasi scappato dalla camera in cui è prigioniera la ragazza, il bandito ha ordinato di portarle la cena e poi ha fatto il consueto giro a certi posti di guardia della fortezza, chiudendosi infine nella sua stanza come se volesse sfuggire una squadra di nemici. Tuttavia, il pensiero fisso di Lucia tremante e le parole che la giovane gli ha rivolto continuano a tormentarlo ed è chiaro che non riuscirà a prendere sonno: maledice la sua decisione di vedere Lucia, rimproverandosi di essersi lasciato impietosire come una donnicciola e cercando di scuotersi al pensiero che spesso, nella sua vita scellerata, ha sentito donne piangere e talvolta anche uomini. Questi ricordi però non gli ridanno affatto coraggio né lo spingono a terminare l'impresa cominciata, anzi gli inducono nell'animo una specie di oscuro terrore, una sorta di pentimento di cui si rammarica e prova grande vergogna. È tentato dall'idea di liberare Lucia e di vedere il suo volto rasserenato, per provare sollievo dall'inquietudine che sembra divorarlo, anche se subito dopo è quasi atterrito dalla propria debolezza e si dice certo che la cosa passerà, cercando di pensare a qualche altra impresa da progettare per tenere la mente occupata.
Non trova tuttavia alcun pensiero che gli rechi conforto e, al contrario, le imprese iniziate lo atterriscono e si pente dei passi compiuti, mentre il tempo futuro gli appare privo di stimoli e la memoria del passato cala pesantemente su di lui, facendogli sembrare intollerabile l'idea di tornare fra i bravi. Medita nuovamente di liberare Lucia, anche se ciò vorrebbe dire mancare alla parola data a don Rodrigo, e inizia poi a pensare come possa essersi impegnato con un simile individuo per far patire una povera innocente, concludendo che l'ha fatto per l'antica abitudine al male che lo pervade da sempre: ciò lo spinge a passare in rassegna tutte le malefatte degli anni precedenti, a pensare a tutti i delitti commessi, pensiero che gli sembra insopportabile e che gli si presenta in tutta la sua mostruosità, portandolo in breve alla disperazione. Afferra una pistola dalla parete accanto al letto ed è sul punto di uccidersi, quando pensa al suo cadavere che verrebbe trovato il giorno dopo e allo scompiglio nel castello, alla gioia dei suoi nemici e di chi gli sopravvivrà; suicidarsi nel buio della notte gli sembra un'azione vile e continua ad alzare e abbassare il cane della pistola, mentre lo assale anche il pensiero angoscioso che, forse, quella vita dopo la morte di cui gli hanno parlato da bambino e che lui ha sempre disprezzato, esiste davvero.

I fedeli in cammino (ediz. 1840)
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I fedeli in cammino (ediz. 1840)

L'innominato vede i fedeli accorrere dal cardinal Borromeo

Il dubbio getta l'innominato in una nera disperazione, che lo porta a lasciar cadere la pistola e a mettersi le mani nei capelli, tremando dalla paura: a un tratto gli tornano in mente le parole di Lucia ("Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia"), pronunciate tuttavia non con il tono supplichevole con cui le ha udite dalla ragazza ma con un accento autorevole che gli ridona un attimo di speranza, mentre vede Lucia non già come la sua prigioniera, bensì come colei che può dispensargli una grazia. È ansioso che spunti il giorno, per correre a liberarla e ottenere il suo perdono, disposto addirittura a portarla lui stesso dalla madre, quando lo assale però l'incertezza su ciò che potrà fare il giorno dopo, e poi quello seguente e quello dopo ancora; soprattutto lo atterrisce il pensiero che presto la notte calerà di nuovo e tornerà a tormentarlo, per cui passa dal proposito di fuggire in un paese lontano dove nessuno lo conosca a quello di tornare alle antiche malefatte superando una crisi passeggera, mentre teme di farsi vedere così cambiato dai suoi bravi il giorno dopo e allo stesso tempo è ansioso che spunti nuovamente il sole.
Infine sul far dell'alba, quando Lucia si è da poco addormentata, l'innominato sente un rumore confuso e festoso giungere dall'esterno e capisce che si tratta di uno scampanio, che sembra echeggiare da punti diversi della valle: curioso di capire di cosa si tratti, l'uomo si alza dal letto e si affaccia a una finestra, vedendo una gran frotta di gente in cammino sul fondo della valle e formata da uomini, donne, fanciulli che aumentano via via di numero e procedono allegramente verso una destinazione sconosciuta al bandito. L'innominato non riesce a spiegarsi le ragioni di quella marcia e, soprattutto, della gioia che traspare dagli atti delle persone e dalle campane a festa, il che accende in lui un fortissimo desiderio di saperne di più: per questo chiama uno dei bravi che dorme in una stanza accanto e lo incarica di informarsi in proposito, mentre il bandito resta alla finestra ad osservare quello spettacolo così insolito per lui.


Temi principali e collegamenti

- Il capitolo rappresenta un punto di svolta nella vicenda del romanzo, poiché in seguito all'incontro fra Lucia e l'innominato quest'ultimo matura il ravvedimento che porterà alla sua conversione e alla successiva liberazione della giovane (dunque il bene inizia a prevalere sul male e i piani di don Rodrigo vanno a monte), d'altro canto Lucia pronuncia il voto di verginità che in seguito costituirà un grave ostacolo al suo ricongiungimento a Renzo e che verrà sciolto da padre Cristoforo solo nel cap. XXXVI. L'episodio ha una posizione centrale nella struttura del libro ed è evidente che solo l'intervento della Provvidenza divina consente un felice scioglimento della vicenda di Lucia, poiché essa illumina l'anima del bandito attraverso le preghiere della giovane prigioniera.

- Il momento saliente del capitolo è ovviamente la duplice notte angosciosa vissuta da Lucia e dall'innominato, che avendo cause diverse si chiude anche in modo opposto: la ragazza trova conforto nel voto pronunciato alla Vergine e riesce alla fine a prendere sonno, invece il bandito è oppresso dalla coscienza dei crimini compiuti ed è in preda alla più tetra disperazione, sfiorando l'idea del suicidio (lo trattiene, tra gli altri, il dubbio che forse c'è una vita oltre la morte e un giudizio divino). Ancora una volta la notte viene presentata come momento di inquietudine e incertezza per un personaggio, come già avvenuto per Renzo durante la fuga (cap. XVII) e come accadrà per don Rodrigo ammalato di peste (XXXIII).

- La notte tragica dell'innominato è una delle pagine più famose del romanzo, un raro esempio di finezza psicologica e verosimiglianza nel descrivere il rovello interiore che non dà pace al bandito e lo porta alla disperazione: il capitolo si conclude con un'atmosfera di "sospensione", nel momento in cui il bandito sente lo scampanio e vede i fedeli che accorrono dal cardinal Borromeo, la cui presenza nel vicino paese verrà spiegata all'inizio del cap. XXII (sarà l'incontro con il prelato a compiere il ravvedimento morale intrapreso dall'innominato, poiché solo attraverso il confronto con un uomo che ha fama di santo il bandito arriverà a chiedere perdono a Dio per i suoi orrendi peccati).
La disperazione di Lucia prigioniera nel castello è parsa ad alcuni interpreti eccessiva, così come la frettolosa decisione di pronunciare il voto con cui di fatto rinuncia al suo amore per Renzo: l'episodio ha un'indubbia funzione narrativa, poiché pone un ulteriore ostacolo sulla strada della felicità dei due promessi, ma è in fondo coerente col personaggio di Lucia quale è apparso finora, ovvero quello di una giovane religiosissima e piena di verecondia e timore (lo stesso Nibbio l'aveva definita "un pulcin bagnato che basisce per nulla", cap. XX), senza contare che la prospettiva di finire nelle mani di don Rodrigo la riempie di terrore (a Gertrude aveva detto di preferire la morte piuttosto che "cader nelle sue mani", cap. IX). Sul punto si veda oltre.

- Il Nibbio gioca un ruolo secondario ma decisivo, per certi versi, nel ravvedimento dell'innominato: dice infatti al padrone che Lucia gli ha fatto compassione, provocando lo stupore del bandito e suscitando in lui la curiosità di incontrare la prigioniera, fatto che provocherà poi la sua angoscia e il successivo pentimento. Diversa invece la parte della vecchia, già apparsa nel cap. precedente e vera macchietta comica: succube del suo padrone, fa di tutto per obbedirgli anche se in modo goffo e involontariamente ridicolo, mentre mostra un attaccamento quasi animalesco per i suoi bisogni materiali (soprattutto il cibo e le comodità).

- La frase "tu non dormirai", che l'innominato crede di sentirsi rivolgere dall'immagine di Lucia tremante all'inizio della sua notte angosciosa, si ispira al Macbeth di W. Shakespeare, in cui il protagonista (Atto II, scena II) dopo aver assassinato re Duncan crede di sentire una voce che gli dice "Sleep no more!" (non dormirai più). La tragedia era citata da Manzoni anche nel cap. IV, nella descrizione del padre di Lodovico che vedeva comparire nella sua memoria il passato di mercante così come Macbeth vedeva "l'ombra di Banco".

G. Pensabene, Lucia in preghiera
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G. Pensabene, Lucia in preghiera

Il voto di Lucia, espressione di una religiosità popolare

Il voto di verginità alla Madonna pronunciato da Lucia mentre è prigioniera al castello dell'innominato rappresenta un ulteriore ostacolo al ricongiungimento dei due promessi e in tal senso costituisce un abile espediente narrativo, anche se l'impegno non è valido in quanto dettato dalla coercizione e dalla paura e, soprattutto, perché coinvolge la volontà di Renzo al quale Lucia è legata da una promessa di matrimonio (infatti sarà proprio per questo che padre Cristoforo potrà sciogliere la ragazza dal voto nel cap. XXXVI, dopo che lei e il fidanzato si sono ritrovati al lazzaretto durante la peste). A tal proposito alcuni commentatori hanno osservato che la condotta di Lucia è a dir poco avventata e indice di un profondo egoismo che la porta, pur di salvarsi, a sacrificare il suo amore per Renzo, anche se forse questo giudizio è eccessivamente severo: non va dimenticato, infatti, che la giovane è prigioniera di un bandito che l'ha fatta rapire dai suoi sgherri e che la prospettiva di essere consegnata a don Rodrigo la riempie di terrore (a Gertrude aveva confessato che avrebbe preferito morire piuttosto che "cader nelle sue mani", cap. IX), per cui essa agisce in modo coerente al modo in cui si è presentata finora, ovvero come una ragazza pudica e timorosa all'eccesso che arrossisce al solo sentir parlare di temi amorosi (persino del suo rapporto con Renzo) ed è spaventata alla sola idea di uscire dal convento di Monza per compiere pochi passi in strada, azione cui la "Signora" la spinge per farla cadere nella trappola di Egidio. Occorre tener presente, inoltre, che Lucia è una povera contadina analfabeta, che vive una religiosità popolare fatta di antiche credenze e superstizioni in cui il voto, inteso come rinuncia a qualcosa di prezioso in cambio di una grazia divina, è una pratica ricorrente e ampiamente diffusa tra i fedeli, senza dimenticare che la giovane è particolarmente devota al culto di Maria che non manca di invocare in vari momenti del romanzo (lo fa anche con la vecchia del castello e poi con l'innominato giunto a visitarla, mentre in precedenza si era appellata alla Vergine nel raccontare la persecuzione di don Rodrigo). Certo il suo gesto è sconsiderato e non tiene conto degli elementi di nullità del voto, mentre dopo la sua liberazione (cap. XXIV) si pentirà inizialmente della promessa fatta ("oh povera me, cos'ho fatto!") e poi proverà vergogna del suo stesso pentimento, convincendosi in seguito che se ha potuto riabbracciare la madre ciò è stato grazie al voto pronunciato, per cui le sembra "un'ingratitudine sacrilega" il non volerlo rispettare. Quando troverà il coraggio di confidarsi con Agnese (cap. XXVI) anche alla madre verranno in mente vari esempi "di gastighi strani e terribili" dovuti alla violazione di qualche voto, perciò non farà nulla per dissuadere la figlia dal rispettare la promessa, anche se ritiene quanto meno avventato che l'abbia pronunciata sia pure nelle circostanze terribili della sua prigionia al castello.
Il vero torto di Lucia e della madre è non chiedere un parere in proposito a un ecclesiastico che potrebbe rassicurarle circa la nullità dell'impegno assunto dalla giovane, anche perché la ragazza è troppo imbarazzata e vergognosa per aprirsi con un estraneo su un punto tanto delicato (il solo cui potrebbe rivolgersi è padre Cristoforo, che però al momento è irraggiungibile a causa dei maneggi del conte Attilio), mentre Renzo, informato per lettera da Agnese degli imprevisti sviluppi, reagirà anche lui da povero contadino e, tuttavia, intuirà la verità riguardo al voto, ovvero che la Madonna "c'entra per aiutare i tribolati", ma non "per far dispetto e per mancar di parola", che sarà poi il motivo di fondo che porterà fra Cristoforo allo scioglimento della promessa. L'amore del giovane per Lucia non gli permette di rassegnarsi e lo spingerà a tornare a Milano per cercarla durante l'epidemia di peste, facendo poi pressioni su di lei quando l'avrà trovata per convincerla della nullità della promessa: la reazione di Lucia sarà a quel punto di smarrimento e angoscia, dal momento che nei mesi precedenti aveva tentato senza successo di dimenticare il suo fidanzato (ed era stata una lotta incessante con se stessa, resa più penosa dalle insistenti domande di donna Prassede) e ora teme di non tener fede al voto pronunciato, spaventata inoltre dall'apparente facilità con cui il giovane la spinge a dimenticare la cosa, dicendo che queste "son promesse che non contan nulla" perché si risolvono "in danno al prossimo", mentre sarà sufficiente dare il nome di Maria alla loro prima figlia come compenso per il mancato adempimento. Il voto ha gettato Lucia in una situazione angosciosa e terribile, che la porta a soffocare i suoi sentimenti per Renzo e a lottare con il suo cuore per non venir meno alla promessa fatta alla Madonna, per cui è quasi incredula quando fra Cristoforo le spiegherà ciò che Renzo ha intuito in modo semplice (cioè che il voto non può essere valido) e che lei, se ancora ama il giovane, è del tutto libera di sposarlo: il frate la rassicura circa il fatto che il suo sacrificio è stato certo gradito a Dio e non è da intendere come sacrilego, benché il religioso definisca "inconsiderato" l'atto della ragazza e adombri dunque il fatto che la promessa è stata dettata dalla paura e dal desiderio di ottenere una grazia condizionata, espressione di una fede ingenua e viziata da quella superstizione che era ancora ampiamente presente tra la popolazione contadina del XVII secolo. L'episodio va dunque ricondotto alla sua reale dimensione narrativa e non caricato di significati che evidentemente non aveva nelle intenzioni dell'autore, per cui sarebbe fuorviante paragonare il voto di Lucia a quello, ad esempio, di Piccarda Donati (la protagonista del canto III del Paradiso dantesco) come pure qualche commentatore ha proposto: in quel caso la promessa di verginità era fatta da una giovane pienamente consapevole della sua scelta e costretta a non adempierla per la violenza degli uomini, mentre Lucia è stata indotta proprio dalla violenza a pronunciare il voto rinnegando i suoi sentimenti per Renzo e facendo forza a se stessa, sia pure con un impegno assunto "di cuore" e confidando nell'aiuto della Madonna (entrambe le donne sono vittime della prepotenza altrui e non va dimenticato che Lucia non avrebbe certo pronunciato il voto se don Rodrigo non l'avesse fatta rapire, per cui la sua debolezza e la poca accortezza dimostrata nell'occasione trovano ampie giustificazioni nella terribile vicenda di cui è stata protagonista).

Capitolo XXI
La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l’autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un po’ prima che la carrozza ci arrivasse; e vistala venire, uscì di bussola [1], fece segno al cocchiere che fermasse, s’avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il Nibbio s’era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: - venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.
Al suono d’una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. - Chi siete? - disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.
- Venite, venite, poverina, - andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero l’intenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone l’oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de’ suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c’entrò la vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
- Chi siete? - domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: - perché son con voi? dove sono? dove mi conducete?
- Da chi vuol farvi del bene, - rispondeva la vecchia, - da un gran... Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura, state allegra, ché m’ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che v’ho fatto coraggio?
- Chi è? perché? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine...!
Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne’ primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un’impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.
Intanto l’innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.
- Ebbene? - disse, fermandosi lì.
- Tutto a un puntino [2], - rispose, inchinandosi, il Nibbio: - l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...
- Ma che?
- Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.
- Cosa? cosa? che vuoi tu dire?
- Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa compassione.
- Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?
- Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.
- Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
- O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole...
“Non la voglio in casa costei, - pensava intanto l’innominato.
- Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà lontana...” E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, - ora, - gli disse, - metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va’ di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti...
Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. - No, - disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella voce segreta, - no: va’ a riposarti; e domattina... farai quello che ti dirò!
“Un qualche demonio ha costei dalla sua, - pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. - Un qualche demonio, o... un qualche angelo che la protegge... Compassione al Nibbio!... Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, - proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, - e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco...”
E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! “Come può aver fatto costei? - continuava, strascinato da quel pensiero. - Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio vederla”.
E d’una stanza in un’altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all’uscio con un calcio.
- Chi è?
- Apri.
A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l’uscio si spalancò. L’innominato, dalla soglia, diede un’occhiata in giro; e, al lume d’una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall’uscio.
- Chi t’ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? - disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
- S’è messa dove le è piaciuto, - rispose umilmente colei: - io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c’è stato verso.
- Alzatevi, - disse l’innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell’uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
- Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, - ripeté il signore... - Alzatevi! - tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte comandato invano.
Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: - son qui: m’ammazzi.
- V’ho detto che non voglio farvi del male, - rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore.
- Coraggio, coraggio, - diceva la vecchia: - se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male...
- E perché, - riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata, - perché mi fa patire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?...
- V’hanno forse maltrattata? Parlate.
- Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m’hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio...
- Dio, Dio, - interruppe l’innominato: - sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...? [3] - e lasciò la frase a mezzo.
- Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a *** dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui... ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!
“Oh perché non è figlia d’uno di que’ cani che m’hanno bandito! - pensava l’innominato: - d’uno di que’ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece...”
- Non iscacci una buona ispirazione! - proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert’aria d’esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. - Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene...!
- Via, fatevi coraggio, - interruppe l’innominato, con una dolcezza che fece strasecolar [4] la vecchia. - V’ho fatto nessun male? V’ho minacciata?
- Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha... un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l’opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.
- Domattina...
- Oh mi liberi ora, subito...
- Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.
- No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa... que’ passi Dio glieli conterà.
- Verrà una donna a portarvi da mangiare, - disse l’innominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
- E tu, - riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, - falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!
Così detto, si mosse rapidamente verso l’uscio. Lucia s’alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
- Oh povera me! Chiudete, chiudete subito -. E sentito ch’ebbe accostare i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. - Oh povera me! - esclamò di nuovo singhiozzando: - chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m’ha parlato?
- Chi è, eh? chi è? Volete ch’io ve lo dica. Aspetta ch’io te lo dica. Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S’io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. - Io son vecchia, son vecchia, - continuò, mormorando tra i denti. - Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -. Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: - via, non v’ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera che v’ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, - soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa.
- Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v’accostate; non partite di qui!
- No, no, via, - disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d’astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d’esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s’avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de’ suoi dolori, de’ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all’immagini sognate da un febbricitante.
Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: - chi è? chi è? Non venga nessuno!
- Nulla, nulla; buone nuove, - disse la vecchia: - è Marta che porta da mangiare.
- Chiudete, chiudete! - gridava Lucia.
- Ih! subito, subito, - rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de’ cibi: - di que’ bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co’ suoi amici... quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm! - Ma vedendo che tutti gl’incanti [5] riuscivano inutili, - siete voi che non volete, - disse. - Non istate poi a dirgli domani ch’io non v’ho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire -. Così detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu, s’alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l’invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.
- No, no, non voglio nulla, - rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: - è serrato l’uscio? è serrato bene? - E dopo aver guardato in giro per la camera, s’alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.
La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: - sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?
- Oh contenta! contenta io qui! - disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. - Ma il Signore lo sa che ci sono!
- Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S’è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?
- No, no; lasciatemi stare.
- Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che v’ho pregata più volte -. Così dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt’a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l’orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato [6] della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra.
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo.
Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. “Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?”
E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. “È viva costei, - pensava, - è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa”.
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
“La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?”
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. “Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è, se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia... E se c’è quest’altra vita...!”
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. “E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!” E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. “Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro?” Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria.
“Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?” E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse [7]; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que’ gesti, e il supplimento [8] delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.

Note
1. Dalla portantina.
2. Secondo i piani.
3. Di farmi paura.
4. Che stupì fortemente la vecchia.
5. Le lusinghe.
6. Ansimante, faticoso.
7. Che incontrasse, nel quale si imbattesse.
8. La sostituzione.


Fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxi.html

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