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Capitolo XXII

"Ci siamo abbattuti in un personaggio,
il nome e la memoria del quale, affacciandosi,
in qualunque tempo, alla mente, la ricreano con una placida
commozione di riverenza, e con un senso giocondo
di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore,
dopo la contemplazione d'una molteplice
e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio
bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole:
chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia
d'andare avanti nella storia, salti addirittura
al capitolo seguente..."

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I Promessi Sposi
 · 2 Apr 2018
G. C. Procaccini, Federico Borromeo
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G. C. Procaccini, Federico Borromeo

Personaggi: Lucia, l'innominato, il cardinal Borromeo, la vecchia del castello, Marta, bravi, il cappellano crocifero

Luoghi: Milano, il castello dell'innominato, il paese vicino

Tempo: Novembre 1628 (nel flashback: dal 1564 sino al 1628)

Temi: La giustizia, La cultura del Seicento, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: L'innominato decide di fare visita al cardinal Borromeo e lascia il castello dopo essere stato nella stanza dove Lucia è tenuta prigioniera. Il bandito raggiunge il paese vicino e chiede del cardinale. Digressione dell'autore sulla biografia del Borromeo.

Testa di bravo (ed. 1840)
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Testa di bravo (ed. 1840)

L'innominato decide di recarsi dal cardinal Borromeo

Il bravo giunge poco dopo a riferire all'innominato che il giorno prima il cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, è arrivato in visita pastorale al paese vicino e che la notizia, sparsasi rapidamente nei villaggi tutt'intorno, ha spinto moltissime persone ad affluire lì nella speranza di vedere il prelato, per cui lo scampanio è piuttosto una manifestazione di gioia collettiva. Rimasto solo, l'innominato torna a guardare dalla finestra e a stupirsi che tanta gente accorra per vedere un solo uomo, poiché è chiaro che non tutti vanno da lui per ricevere qualche donazione di denaro: il bandito decide su due piedi di andare anche lui a parlargli, nella speranza che possa liberarlo dal tormento interiore che lo ha tenuto sveglio tutta la notte. Finisce in fretta di vestirsi, indossa una casacca dal taglio militaresco, prende la pistola rimasta sul letto e un'altra che attacca alla cintura, alla quale mette anche un pugnale, mentre infila ad armacollo una carabina famosa quasi quanto lui. Prende il cappello ed esce dalla sua camera, recandosi a quella della vecchia dove ha lasciato Lucia e alla cui porta bussa, dopo aver posato la carabina a terra. La vecchia corre ad aprire saltando giù dal letto e il bandito entra, vedendo Lucia che dorme rannicchiata a terra e rimproverando aspramente la donna per non aver eseguito i suoi ordini. La vecchia tenta debolmente di giustificarsi, quindi l'innominato le comanda di lasciar dormire la giovane e di non disturbarla, mentre al suo risveglio le dovrà dire che lui se n'è andato ma tornerà presto, disposto a fare tutto quello che lei vorrà. La vecchia resta stupefatta, poi il bandito esce riprendendo la carabina e mandando Marta (la donna della sera prima) in una stanza vicina, mentre un bravo ha l'ordine di fare la guardia e impedire a chiunque altro di entrare nella camera della prigioniera. In seguito l'innominato esce dal castello e scende rapidamente la discesa.

F. Gonin, L'innominato chiede del cardinale
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F. Gonin, L'innominato chiede del cardinale

L'innominato giunge dal cardinale

L'anonimo, osserva l'autore, non dice quale sia la distanza dal castello dell'innominato al paese, ma sembra essere un tragitto piuttosto breve, anche se a quei tempi la gente accorreva a vedere il Borromeo anche da più di venti miglia. Diversi bravi incontrano il loro padrone che scende l'erta e si aspettano che chieda loro di unirsi a lui per qualche spedizione, mentre il bandito si limita a rivolgere delle occhiate che li lasciano pieni di stupore. Quando poi l'innominato arriva sulla pubblica strada, chi lo incontra si meraviglia vedendolo senza alcuna scorta, mentre ciascuno gli cede il passo e gli fa ampi cenni di deferenza: arrivato in paese, trova una gran folla che si apre al suo passaggio, dopo che il suo nome è passato di bocca in bocca. Un passante, alla sua domanda dove si trovi il cardinale, gli indica la casa del curato, al che l'innominato vi si reca ed entra nel cortile, dove sono radunati molti preti, e da qui passa in un salottino dentro l'abitazione, dove sono altri religiosi che lo guardano tutti con stupore e una certa inquietudine. Il bandito posa la carabina a terra e chiede a uno dei preti dove sia il cardinale, domanda alla quale l'altro non sa rispondere perché viene da un paese vicino e perciò chiama il cappellano crocifero. Quest'ultimo si avvicina non senza timore e meraviglia, quindi l'innominato gli chiede di vedere il cardinale e il religioso, sia pure balbettando qualche timida obiezione, va subito a fare di malavoglia la sua ambasciata al prelato.

Federigo Borromeo (ed. 1840)
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Federigo Borromeo (ed. 1840)

Digressione dell'autore: la storia del Borromeo

L'autore osserva che la narrazione a questo punto si è imbattuta in un personaggio storico (il cardinal Borromeo) che è come una piacevole sosta all'ombra di un albero per un viandante stanco e triste, vicino a una fonte d'acqua purissima: si tratta infatti di una figura di eccezionale valore morale e che ispira un'incredibile deferenza, per cui interrompere il racconto delle vicende del romanzo sarà una gradevole digressione, specie dopo aver visto tante immagini di dolore ed esempi perversi di malvagità. Occorre spendere poche parole per introdurre degnamente un personaggio di tale importanza e se il lettore desidera invece riprendere il filo della storia, può saltare direttamente al capitolo successivo.
Federigo Borromeo nasce nel 1564 e in tutta la sua vita userà sempre il suo ingegno, la sua fortuna, il suo intento per ricercare ed esercitare i migliori propositi: la sua esistenza è simile a un ruscello che scaturisce limpido dalla fonte e va a gettarsi puro nel fiume, senza ristagnare né intorbidirsi mai. Cresciuto in un'agiata famiglia aristocratica, fin dai primissimi anni bada solo agli insegnamenti della religione che spingono all'umiltà, alla ricerca dei veri beni, all'annullamento dell'orgoglio, trovando queste massime autentiche e incompatibili con quelle opposte (del decoro nobiliare) che pure provengono spesso dalle stesse labbra, dunque inizia prestissimo a pensare a come rendere la sua vita utile al prossimo e santa.

Il collegio Borromeo (ed. 1840)
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Il collegio Borromeo (ed. 1840)

L'ingresso nel collegio Borromeo a Pavia

Nel 1580 Federigo manifesta il proposito di farsi prete e riceve l'abito dal cugino Carlo Borromeo, già all'epoca considerato da tutti santo: poco dopo entra nel collegio fondato da questo a Pavia e ancor oggi noto col nome di Borromeo, dove decide di insegnare la dottrina cristiana ai popolani più poveri e di assistere i malati e i bisognosi. Coinvolge in questo suo proposito anche i suoi compagni, servendosi dell'autorità di cui gode in quel luogo grazie al nome del suo casato, mentre schiva tutti gli agi e i privilegi che la sua condizione di nascita potrebbe garantirgli, consumando pasti frugali, vestendosi in modo povero e adottando uno stile di vita confacente a queste sue scelte. I parenti si mostrano insoddisfatti di ciò, in quanto a loro dire tale condotta svilisce il decoro del casato, mentre anche i suoi maestri tentano ogni tanto di fargli indossare qualcosa che lo distingua dagli altri allievi del collegio, mossi dal desiderio di ben figurare, oppure da un 'indole naturalmente servile che ricerca lo splendore altrui, oppure ancora dalla volontà di equilibrare in modo interessato le virtù e i difetti. Federigo non solo non accetta queste attenzioni, ma fino all'età giovanile riprende tutti coloro che ne sono protagonisti per buone e cattive ragioni.

S. Carlo Borromeo (ed. 1840)
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S. Carlo Borromeo (ed. 1840)

Dalla morte di S. Carlo all'arcivescovado

Finché Carlo Borromeo, di ventisei anni più vecchio di Federigo, rimane in vita, esercita sul cugino una sorta di magistero e gli ispira un altissimo modello di comportamento, specie perché l'allora arcivescovo di Milano richiama con la sua sola presenza un'idea immediata di santità, corroborata dal rispetto che tutti sembrano mostrargli: tuttavia dopo la sua morte, avvenuta quando Federigo ha vent'anni, nessuno si accorge che gli è venuto a mancare un maestro e una guida, il che suona a lode del carattere e della maturità del giovane ecclesiastico. La fama dell'ingegno di Federigo, l'appoggio di molti cardinali potenti, il nome della sua famiglia, la memoria dello stesso cugino Carlo, tutto sembra pronosticare al giovane sacerdote che presto sarà elevato a una dignità ecclesiastica, anche se lui teme gli incarichi di rilievo e cerca di scansarli, non perché rifugga all'idea di servire il prossimo, bensì in quanto non si ritiene all'altezza. Nel 1595, tuttavia, papa Clemente VIII gli propone l'arcivescovado di Milano ed egli, dopo un'iniziale titubanza e un primo rifiuto, è successivamente indotto ad accettare il comando del pontefice. L'autore osserva che tali manifestazioni d'umiltà sono molto facili e possono essere fatte anche da ipocriti e da uomini poco seri, cosa che certamente non è avvenuta nel caso di Federigo Borromeo: la sua vita dimostra l'autenticità delle sue parole, quindi le sue professioni di noncuranza per le cariche ecclesiastiche sono certamente sincere.

La Biblioteca Ambrosiana (ed. 1840)
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La Biblioteca Ambrosiana (ed. 1840)

Federigo arcivescovo: la Biblioteca Ambrosiana

Una volta divenuto arcivescovo, Federigo è molto attento a non prendere per sé cure e ricchezze che siano eccessive rispetto allo stretto necessario, anche perché convinto che le rendite ecclesiastiche siano patrimonio dei poveri: fa valutare quale somma serva per il mantenimento suo e della sua servitù, e poiché essa ammonta a seicento scudi dà ordine che tale cifra ogni anno sia versata dalla sua cassa privata a quella ecclesiastica, non volendo vivere sulle spalle di altri essendo lui ricchissimo. Egli vive del resto in modo molto modesto, smettendo un vestito solo quando è davvero logoro e, tuttavia, ha una grande cura della sua pulizia personale, cosa rimarchevole in un'età che mescola sfarzo e sudiciume come il Seicento; assegna gli avanzi della sua mensa frugale ai poveri, disponendo che uno di essi entri ogni giorno nella sua sala da pranzo a raccogliere quel che è rimasto. Tutto ciò potrebbe forse far credere che Federigo abbia un'indole gretta e attenta solo ai bisogni materiali, se non ci fosse la Biblioteca Ambrosiana (da lui progettata e fondata) a testimoniare l'esatto contrario: l'arcivescovo raccoglie molti libri personalmente e spedisce otto uomini tra i più colti del suo tempo a reperirne altri nei principali paesi d'Europa, dall'Italia alla Francia, dalla Spagna alla Germania, sino alle Fiandre, alla Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Alla fine vengono raccolti circa trentamila volumi stampati e quattordicimila manoscritti, mentre Federigo unisce alla Biblioteca un collegio di dottori (nove quando lui è in vita, stipendiati dalle sue rendite, in seguito ridotti a due) il cui compito è coltivare gli studi di teologia, storia, letteratura, lingue orientali e tenuti a pubblicare di quando in quando un lavoro sulle loro attività. Fonda anche un collegio trilingue per lo studio di greco, latino e italiano, nonché un collegio di alunni che vengono istruiti in tutte queste discipline, una stamperia di lingue orientali, una ricca pinacoteca e una galleria d'arte. Grandi sono le difficoltà nel reperire i caratteri tipografici per stampare libri nelle lingue orientali, così come nel trovare i dottori del collegio, otto dei quali provengono dai giovani alunni del seminario (Federigo non ha grande opinione dei dotti del suo tempo, giudizio che la posterità finirà per confermare); egli prescrive poi al bibliotecario di mantenere relazioni con gli uomini più dotti d'Europa e di acquistare i libri più interessanti che vengano pubblicati, disponendo inoltre che a tutti sia consentito il libero accesso alla Biblioteca e la consultazione dei volumi qui conservati. La cosa può sembrare ovvia al giorno d'oggi, osserva l'autore, ma non così avveniva nel Seicento quando, al contrario, i libri di altre illustri biblioteche pubbliche erano nascosti negli armadi e sottratti persino alla vista del pubblico che potesse esservi interessato.
La fondazione della Biblioteca Ambrosiana è un'opera meritoria, che influisce positivamente sulla cultura del tempo che, com'è noto, è viziata da ottusità e ignoranza, tanto più che molti si oppongono e obiettano a Federigo che c'è altro a cui pensare e che tanti denari potrebbero essere usati per scopi più utili e redditizi (la costruzione della Biblioteca ha infatti un costo elevato e ammonta a circa centocinquemila scudi, per la maggior parte messi a disposizione dal patrimonio privato dell'arcivescovo).

F. Gonin, Federigo e i bambini
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F. Gonin, Federigo e i bambini

Federigo benefattore del popolo

Federigo ritiene del resto che l'elemosina ai poveri sia un dovere precipuo di ogni uomo e soprattutto di chi come lui ne ha i mezzi economici, quindi si dedica a soccorrere i bisognosi in tutta la sua vita e anche in occasione della carestia del 1628-29, come l'autore avrà presto occasione di riferire. Un aneddoto è degno di essere citato, quando cioè il cardinale viene a sapere che un nobile cerca di forzare la figlia a farsi monaca contro la sua volontà e lo manda dunque a chiamare: l'aristocratico dichiara che il vero motivo è il fatto che non ha i quattromila scudi necessari a maritare convenientemente la ragazza, al che Federigo dona tale somma alla dote della giovane (forse, osserva l'autore, quei soldi si potevano usare per una causa più nobile, ma è comunque da elogiare il fatto che Federigo non abbia voluto che una giovane donna diventasse monaca subendo un atto di violenza).
L'arcivescovo mostra poi sempre una cordialità gioviale con tutti, specie con quelli che appartengono alle classi sociali più umili, il che non manca di suscitare le rimostranze di chi gli sta intorno: un giorno Federigo è in visita a un paese contadino e si intrattiene nell'educare alcuni bambini, ai quali fa delle carezze, e un membro del suo seguito lo avverte di non avvicinarsi troppo a quei fanciulli dall'aspetto sudicio e malsano, come se il prelato non sapesse rendersene conto da solo. Federigo risponde che sono anime affidate alla sua cura e che, forse, non lo vedranno mai più: può egli esimersi dall'abbracciarli? L'autore osserva con amara ironia che è molto raro che qualcuno riprenda i grandi uomini dei loro difetti, mentre è fin troppo facile che essi vengano trattenuti dal fare del bene.
Federigo si mostra sempre umile e con atteggiamenti benevoli, frutto di un'antica abitudine a tenere a freno un'indole vivace e piena di temperamento, e se talvolta si mostra brusco con qualcuno è quando è costretto a riprendere dei sacerdoti che si mostrano avari o che trascurano i loro doveri. Riguardo alla sua gloria personale egli appare sempre lontano da qualunque ambizione, per cui partecipa a diversi conclavi per eleggere un nuovo papa e non solo non mostra mai rammarico di non aver raggiunto quell'altissima dignità, ma in un'occasione rifiuta apertamente l'appoggio di un altro cardinale e della sua "fazione" per ottenere l'elezione. D'altronde Federigo non ama comandare ed è sempre molto attento a non impicciarsi nelle questioni che non lo riguardano direttamente, dimostrando in ogni circostanza una somma discrezione.

Federigo e i difetti del suo secolo


L'autore osserva che sarebbe impresa ardua elencare tutti i meriti acquisiti da Federigo nella sua lunga vita ed enumerare tutte le sue attività, anche se in esse lo studio ha avuto una parte essenziale e, dunque, il cardinale ha fama di essere stato un uomo dotto. Questo, tuttavia, non toglie che egli abbia abbracciato convinzioni proprie del suo tempo che al giorno d'oggi si sono dimostrate del tutto false, e sarebbe troppo facile scusare Federigo col dire che nel Seicento esse erano assolutamente comuni, dal momento che dire questo significa non dire nulla; l'autore non si sofferma sulle opinioni errate che il cardinale ha sostenuto, limitandosi a dire che non fu perfetto e che dunque egli non ha voluto scrivere un'orazione funebre. Quanto alla sua attività di dotto, Federigo ha lasciato circa un centinaio di opere dedicate a vari argomenti (morale, storia, letteratura, temi sacri...), le quali sono tuttora conservate nella Biblioteca Ambrosiana da lui fondata, anche se di esse non si serba praticamente alcuna memoria e non sembrano aver lasciato traccia nella cultura del nostro paese: il lettore potrebbe chiedersi per quale motivo, specie alla luce dei molti meriti dimostrati da Federigo in vita, e la risposta che l'autore potrebbe dare in merito sarebbe lunga e prolissa, per cui egli pone fine alla sua digressione e torna a narrare le azioni del personaggio sulla scena del romanzo, seguendo il racconto dell'anonimo.

Temi principali e collegamenti


- La prima parte del capitolo è dedicata all'innominato, in preda ai rimorsi per la sua vita delittuosa, che decide di recarsi dal cardinal Borromeo in visita pastorale al vicino paese: l'autore interrompe poi la narrazione per aprire una lunga digressione sulla biografia del personaggio storico, che occupa interamente il capitolo e che il lettore è invitato a saltare qualora volesse riprendere il racconto degli avvenimenti del romanzo. Il cardinale apparirà direttamente sulla scena solo nel cap. XXIII e in seguito non mancheranno accenni alla sua attività pastorale, specie in riferimento alla carestia e all'epoca della peste.

- La biografia del cardinale è ricca di elogi e tende a mostrare il personaggio in una luce positiva ed edificante, al punto che alcuni interpreti l'hanno giudicata leziosa e ai limiti del racconto agiografico: in realtà Manzoni intende dimostrare, attraverso l'esempio altissimo del prelato, come una vita possa essere spesa al servizio del prossimo ed essere illuminata dalla Grazia e dal Vangelo, dimostrando tra l'altro spiccate virtù in un secolo (il Seicento) dominato da difetti diametralmente opposti (l'umiltà contro l'orgoglio nobiliare, la frugalità contro lo sfarzo, la cura della pulizia contro il sudiciume). Le fonti storiche dell'autore sono l'Historia patria di G. Ripamonti e la Vita di Federigo Borromeo di F. Rivola, scritti che ricordano l'incontro tra il cardinale e l'innominato. Per approfondire: G. Getto, Il cardinal Borromeo.

- Tra i molti meriti del Borromeo vi è senza dubbio la fondazione nel 1607 della Biblioteca Ambrosiana, che nel 1609 fu tra le prime ad essere aperte al pubblico con una sala di lettura: a tutt'oggi è una delle più prestigiose al mondo e conta qualcosa come 35.000 manoscritti, inoltre conserva il Codice atlantico di Leonardo Da Vinci e numerosi autografi di autori fra cui Petrarca, Boccaccio, Ariosto e lo stesso Manzoni. Il romanziere vi consultò molti volumi e si documentò sulla storia del XVII secolo, raccogliendo materiale per i Promessi sposi.

- L'aneddoto riguardante il nobile che vuole monacare la figlia contro il suo volere e che viene dissuaso da Federigo grazie alla donazione della dote per la giovane allude alla vicenda analoga di Gertrude, narrata nei capp. IX-X (si trattava in effetti di una pratica purtroppo assai diffusa nei secc. XVII-XVIII e alla quale il cardinale tentò di opporsi).

- Nel finale del capitolo Manzoni accenna in modo velato al fatto che il Borromeo abbracciò alcune opinioni comuni al suo secolo, in quanto promosse alcuni processi per stregoneria e, soprattutto, credette alla diceria degli untori (su questo fatto l'autore tornerà nel cap. XXXII, durante il racconto della peste a Milano): l'allusione è assai reticente e viene motivata da alcuni critici con la volontà da parte del romanziere di sfumare l'impressione negativa sul cardinale, il cui personaggio viene mostrato in una luce del tutto positiva e con un alone di santità, specie nelle successive vicende che porteranno alla conversione dell'innominato (si veda oltre). Altrettanto velato, anche se con una certa ironia, l'accenno all'oblio in cui sono cadute le molte opere scritte dal Borromeo, poiché Manzoni lascia intendere che esse partecipano della vacuità della cultura secentesca e sono perciò state dimenticate (lo scrittore ricorre allo stesso espediente già usato nell'Introduzione per evitare ulteriori spiegazioni circa le scelte linguistiche del romanzo, ovvero il non voler tediare il lettore con lunghi discorsi).

A. Besozzi, F. Borromeo consacrato arcivescovo (1670)
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A. Besozzi, F. Borromeo consacrato arcivescovo (1670)

La biografia del Borromeo: ritratto equilibrato o panegirico?

Il cardinal Borromeo rappresenta una vistosa eccezione nel sistema dei personaggi del romanzo, anzitutto perché è l'unica figura storica che interagisca direttamente con i protagonisti della vicenda influenzando le loro vite (specie portando alla liberazione di Lucia, nonché interessandosi successivamente al destino di Renzo), poi perché è il solo personaggio potente e appartenente al mondo aristocratico che dà prova di virtù e di un comportamento dignitoso, contravvenendo alla regola secondo cui l'esercizio del potere conduce inevitabilmente a compiere azioni malvagie e delittuose. Anche per questo l'autore dedica alla sua biografia, caso unico nel libro, quasi un intero capitolo (il XXII), che tuttavia è parso a molti interpreti un elogio eccessivo e stucchevole della figura del prelato, sconfinante talvolta nella letteratura agiografica: tale giudizio negativo è stato influenzato dall'insofferenza per gli aspetti religiosi e moraleggianti del romanzo, specie da parte della critica di ispirazione marxista del XX secolo, tuttavia è innegabile che Manzoni offra del cardinale un quadro in cui prevalgono le luci e in cui le ombre sono sottaciute in modo alquanto reticente, benché dei difetti dell'uomo vi siano degli accenni nei capp. successivi (ad esempio nel XXXII, col dire che Borromeo credette forse all'esistenza degli untori durante la peste del 1630, salvo omettere il suo coinvolgimento nei processi per stregoneria che, invece, sono imputati al famoso medico Lodovico Settala). Nel presentare il cardinale l'autore distorce almeno in parte la verità, ma occorre capire le reali intenzioni che si celano dietro questo atteggiamento e, soprattutto, liberarsi del pregiudizio per cui Manzoni abbia voluto esaltare il ruolo della Chiesa come istituzione: non va dimenticato che Borromeo e fra Cristoforo sono certo esponenti virtuosi del clero dell'Italia del Seicento, ma non mancano esponenti molto meno lodevoli come don Abbondio, la monaca di Monza o il padre provinciale dei cappuccini che si macchiano di colpe più o meno gravi, per cui è lecito affermare che il cardinale rappresenti piuttosto un'eccezione alla regola della corruzione e dell'ignavia fra i religiosi (non a caso, del resto, nella sua biografia Manzoni rammenta che spesso rimproverava proprio i sacerdoti che venivano meno ai loro doveri, come il personaggio farà con don Abbondio nei capp. XXV-XXVI). In questo senso, anzi, l'elogio del Borromeo acquista valore in quanto vuol essere, per esplicita ammissione dello stesso autore, un fulgido esempio di quelle virtù così rare nella sua epoca, per cui è presentato come un uomo umile a dispetto dell'alterigia della nobiltà di cui fa parte, colto nonostante la diffusa ignoranza e noncuranza delle lettere, moralmente rigoroso in un'epoca in cui, invece, regnava per lo più l'anarchia e l'inosservanza delle leggi a cominciare dagli uomini potenti. I suoi difetti sono certo sottaciuti e manca una vera interpretazione critica della figura storica del cardinale, ma ciò si spiega con la sincera ammirazione del Manzoni per un uomo che seppe distinguersi in modo positivo in un secolo di tale decadenza, e che, non va scordato, ebbe effettivamente fama di santo e fu oggetto di autentica venerazione da parte della popolazione, dunque l'elogio del romanziere può sembrare eccessivo agli occhi dei moderni ma va ricondotto al contesto storico-religioso in cui visse e operò, benché le sue manchevolezze non siano attribuite solo all'arretratezza del periodo in cui nacque, spiegazione cui sarebbe stato fin troppo facile ricorrere (l'autore la respinge, sia pure in modo sfumato, proprio nel cap. XXII).
Tutto ciò si ricollega alla visione politica improntata al paternalismo di Manzoni, secondo il quale il compito di guidare la società attraverso un processo di riforme "illuminate" dall'alto spetta all'aristocrazia, essendo a ciò del tutto incapaci sia la borghesia, preda di gretti interessi economici e miopia politica, sia la massa popolare, sempre pronta ad abbandonarsi ai propri istinti e alla violenza: non c'è dubbio che il cardinal Borromeo sia un esponente non degenere di quella stessa aristocrazia, dunque viene presentato come un personaggio di eccezionale statura morale che, in contrasto con i difetti mostrati dai nobili nelle vicende del romanzo, esercita le sue funzioni con un comportamento estremamente dignitoso, dando prova di come l'esercizio del potere, anche solo nelle istituzioni ecclesiastiche, non debba necessariamente produrre iniquità e soprusi a danno dei più deboli. Ciò spiega perché la sua figura sia dipinta in modo luminoso e si stagli in maniera fin troppo nitida sulle fosche vicende legate al potere nel romanzo, ma anche perché dalla sua descrizione emerga a tratti un'impressione eccessivamente edificante, mentre dalle sue parole e azioni traspare talvolta un atteggiamento rigoroso e intransigente che può apparire fastidioso al lettore moderno (e tale dovette apparire anche allo stesso autore, come si affretta a dichiarare all'inizio del cap. XXVI durante il colloquio tra il prelato e don Abbondio, in cui il curato è rimproverato aspramente per il suo poco coraggio). Manzoni ha una visione della società ben lontana da ogni idea di uguaglianza e democraticità, perciò in essa è naturale che vi siano gerarchie ben distinte che devono rimanere tali, anche se ovviamente le ingiustizie vanno combattute e gli eccessivi privilegi eliminati: un personaggio nobile e potente come il cardinale è superiore ai suoi sottoposti e può permettersi di rimproverarli duramente anche se, com'è ovvio, egli non si mescola alla loro vita modesta, né condivide i problemi concreti della loro umile condizione, limitandosi a servire loro da esempio con la sua condotta moralmente impeccabile, anche se vissuta nel privilegio e non esente da macchie in quanto, come Manzoni certo non nega, anch'egli è un uomo soggetto ad errori e debolezze. Viste le cose in quest'ottica si può forse giudicare in modo equilibrato il ritratto luminoso e agiografico del personaggio che è offerto prima di presentarlo direttamente sulla scena, tenendo presente che a monte di tutto vi è un modello di società ben diverso da quello attuale e non dimenticando che lo stesso Manzoni è in fondo preda, non diversamente dal cardinale, di errori e pregiudizi propri del suo secolo, per cui sarebbe sbagliato pretendere di giudicare certe sue affermazioni sulla base di convinzioni proprie del mondo moderno e in fondo ancora estranee a quelle del romanziere (ciò sarà evidente anche nel confronto tra Borromeo e don Abbondio dei capp. XXV-XXVI, per cui si rimanda al relativo approfondimento).

Capitolo XXII
Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a *** [1], e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest’arrivo ne’ paesi d’intorno aveva invogliati tutti d’andare a veder quell’uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso. “Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n’avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Cos’ha quell’uomo, per render tanta gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura... Ma costoro non vanno tutti per l’elemosina. Ebbene, qualche segno nell’aria [2], qualche parola... Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se...! Perché non vado anch’io? Perché no?... Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr’occhi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che... Sentirò cosa sa dir lui, quest’uomo!”
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una sua casacca d’un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta [3] rimasta sul letto, e l’attaccò alla cintura da una parte; dall’altra, un’altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un cantuccio vicino all’uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data un’occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
- Dorme? - domandò sotto voce alla vecchia: - là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata?
- Io ho fatto di tutto, - rispose quella: - ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire...
- Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà... Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si sveglierà... dille che io... che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che... farà tutto quello che lei vorrà.
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: “che sia qualche principessa costei?”
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov’era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de’ valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla, per veder Federigo.
I bravi che s’abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e dell’occhiate che dava in risposta a’ loro inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri [4], era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò subito di bocca in bocca; e la folla s’apriva. S’accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale. - In casa del curato, - rispose quello, inchinandosi, e gl’indicò dov’era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c’eran molti preti, che tutti lo guardarono con un’attenzione maravigliata e sospettosa. Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e l’appoggiò in un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.
- Io son forestiero, - rispose l’interrogato, e data un’occhiata intorno, chiamò il cappellano crocifero [5], che in un canto del salottino, stava appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: - colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla larga! - Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette venire l’innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un poco, poi disse o balbettò: - non saprei se monsignore illustrissimo... in questo momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere -. E andò a malincorpo [6] a far l’imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po’ di tempo all’ombra d’un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte d’acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d’una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d’andare avanti nella storia, salti addirittura [7] al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione [8] e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo [9], che una fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi. Si valse dell’autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato d’esempio, un primato che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l’infimo per condizione. I vantaggi d’un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Ne credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un’altra guerra ebbe a sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s’invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non che lasciarsi vincere da que’ tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella presenza grave, solenne, ch’esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l’ossequio manifesto e spontaneo de’ circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d’un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent’anni, fosse mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà, la parentela e gl’impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un’idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII [10] l’arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l’ipocrisia non ha bisogno d’un più grande sforzo d’ingegno per farle, che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo d’esser l’espressione naturale d’un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole ch’esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gl’impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri: come poi intendesse infatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa [11]; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, d’una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v’unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; una galleria di quadri, una di statue, e, una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de’ libri e de’ manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi [12] di quelle lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de’ tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento d’utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio [13] con gli uomini più dotti d’Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d’indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d’una biblioteca: allora non era così. E in una storia dell’ambrosiana, scritta (col costrutto e con l’eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti [14] il comodo di studiare, non se n’aveva neppur l’idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all’uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n’era e ce n’è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos’importa? e c’era altro da pensare? e che bell’invenzione! e mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell’impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de’ suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia bisogno di sapere se n’abbia spesi molt’altri in soccorso immediato de’ bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l’elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei all’opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De’ molti esempi singolari che d’una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d’un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio impiegati in cent’altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d’una virtù così libera dall’opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca.
La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo [15] con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella visita d’un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l’interrogare e l’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l’avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que’ ragazzi, perche eran troppo sudici e stomacosi [16]: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de’ loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: - sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de’ suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co’ pastori suoi subordinati che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d’ardore, né d’agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell’animo suo, più mirabile se vi si destavano. Non solo da’ molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest’avversione al predominare apparivano ugualmente nell’occasioni più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d’impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall’ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di notare un’altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu d’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento, d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c’ebbe una parte, ma ce n’ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con tant’altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello d’uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere un’orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest’uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arti e d’altro. “E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor d’animo, con tant’altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri?”
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l’osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v’andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest’uomo, andiamo a vederlo in azione, con la guida del nostro autore.


Note
1. Il paese vicino al castello.
2. Qualche benedizione.
3. La pistola (detta così perché lunga circa un terzo del fucile).
4. I passanti, i viandanti.
5. Il prete che nelle processioni solenni portava la croce: qui ha la funzione di segretario del cardinale.
6. A malincuore, controvoglia.
7. Direttamente.
8. Rinuncia, abnegazione.
9. S. Carlo Borromeo (1538-1584), arcivescovo di Milano e canonizzato da papa Paolo V nel 1610.
10. Clemente VIII appartenne alla famiglia degli Aldobrandini e fu papa dal 1592 al 1605; fu mecenate del Tasso, che avrebbe voluto incoronare in Campidoglio.
11. La rendita assegnata annualmente all'arcivescovo per il suo manteniumento.
12. I caratteri tipografici.
13. Mantenere relazioni, corrispondere.
14. A coloro che andavano in biblioteca.
15. Facilmente avvicinabile, alla mano.

Fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxii.html
Stomachevoli, disgustosi.

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