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Capitolo XXVI

"Non si creda però che don Gonzalo,
un signore di quella sorte, l'avesse proprio davvero
col povero filatore di montagna; o che lo credesse
un soggetto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo,
da non lasciarlo vivere anche lontano,
come il senato romano con Annibale.
Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa,
per darsi tanto pensiero de' fatti di Renzo;
e se parve che ne desse, nacque da un concorso
singolare di circostanze..."

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I Promessi Sposi
 · 2 Apr 2018
Don Gonzalo, Stampa del XVII sec.
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Don Gonzalo, Stampa del XVII sec.

Persoaggi: Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio, il cardinal Borromeo, l'innominato, donna Prassede, Bortolo, don Gonzalo Fernandez de Cordoba

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Milano, Bergamo

Tempo: Dicembre 1628 e settimane seguenti

Temi: La giustizia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: Rimproveri del cardinale a don Abbondio. Lucia si trasferisce nella villa di donna Prassede. L'innominato fa avere ad Agnese, tramite il cardinale, cento scudi d'oro. Lucia rivela alla madre il voto di verginità. Agnese cerca invano di avere notizie di Renzo, che nel frattempo si è trasferito in un altro paese sotto il falso nome di Antonio Rivolta. Il governatore di Milano, don Gonzalo, protesta con le autorità veneziane per l'asilo offerto a un ricercato come Renzo Tramaglino.

F. Gonin, Don Abbondio a capo chino
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F. Gonin, Don Abbondio a capo chino

I rimproveri del cardinale a don Abbondio. I "pareri di Perpetua"

Don Abbondio resta senza parole di fronte alle domande insistenti del cardinal Borromeo e anche l'autore confessa con bonaria ironia di trovare eccessive e fin troppo facili le esortazioni al coraggio che Federigo rivolge al suo sacerdote, anche se si consola al pensiero che il prelato non si limitava a parlare ma metteva in pratica quegli stessi precetti. Il cardinale osserva che don Abbondio resta in silenzio in quanto è consapevole di aver mancato al suo dovere, dal momento che non solo egli ha piegato il capo di fronte alle minacce subite di non celebrare il matrimonio, ma (ciò che è più grave) ha accampato futili pretesti per sottrarsi alle sue incombenze e ha in tal modo tenuto all'oscuro i due promessi della minaccia che gravava sul loro capo. Don Abbondio capisce che Lucia e Agnese devono aver riferito al cardinale anche delle sue scuse per rimandare le nozze, mentre Federigo deve constatare che il curato ha effettivamente mentito ai due giovani per tenerli all'oscuro, cosa di cui ora dovrebbe arrossire e chiedere venia al suo superiore. Il curato pensa tra sé che il cardinale non ha esitato ad abbracciare l'innominato nonostante i suoi delitti, mentre ora accusa lui per una piccola innocente bugia detta per salvarsi la vita, lamentandosi che è destinato ad essere perseguitato da tutti: chiede poi ancora al superiore cosa avrebbe dovuto fare in una simile circostanza, al che il cardinale ribadisce, irritato per la caparbietà di don Abbondio, che avrebbe dovuto amare e pregare, facendo il proprio dovere senza timore di perdere quella vita che prima o poi deve naturalmente finire. In ogni caso, afferma ancora il cardinale, don Abbondio avrebbe potuto informare di tutto il suo superiore, che sarebbe prontamente intervenuto a proteggere i due promessi e la sua stessa vita come prescrive il suo alto compito, e ciò avrebbe ridotto a più miti consigli anche il prepotente che lo aveva minacciato, in quanto spesso la minaccia conta più sulla paura che sui mezzi di esercitare la violenza e una volta che la trama fosse stata nota al di fuori del paese quell'uomo avrebbe forse rinunciato ai suoi propositi. Don Abbondio osserva con amarezza tra sé che questi erano proprio i consigli che Perpetua gli aveva dato dopo l'incontro coi bravi, benché continui a pensare che un giorno don Rodrigo tornerà in paese e il cardinale non potrà proteggerlo dalla sua ira, poiché il porporato non ha né fucili né bravi.

F. Gonin, Don Abbondio e il cardinale
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F. Gonin, Don Abbondio e il cardinale

La difesa di don Abbondio. Alto discorso morale del cardinale

Il cardinale ribadisce che don Abbondio ha agito così in quanto troppo attaccato alla vita terrena che deve finire, al che il curato si lascia sfuggire l'obiezione che in realtà è toccato a lui trovarsi di fronte i bravi che lo minacciavano, per cui è fin troppo facile per il cardinale parlare senza essersi trovato in un simile frangente. Don Abbondio si pente subito delle sue parole troppo franche e teme di subire un duro rimprovero da parte del cardinale, ma con suo stupore vede che il porporato ha assunto un aspetto pensieroso e quasi contrito: Federigo ribatte che, in effetti, la sua condizione di superiore è assai penosa, dal momento che è costretto a rimproverare agli altri quelle debolezze che, forse, egli stesso ha dimostrato in occasioni simili, anche se ciò non può frenarlo dall'esercitare la sua autorità. Egli deve comunque dare il buon esempio e non può pretendere dagli altri ciò che lui stesso non sarebbe pronto a fare, cosicché esorta don Abbondio a fargli notare francamente le sue eventuali manchevolezze, affinché comprenda che i rimproveri gli vengono da Dio stesso che parla per bocca di un umile vescovo e acquistino pertanto un maggior valore di fronte alla sua coscienza. Don Abbondio pensa tra sé che il cardinale è davvero un santo e vorrebbe fare l'inquisitore anche su se stesso, quindi afferma a mo' di scusa che tutti conoscono lo zelo imperterrito del Borromeo: questi risponde che non voleva certo una lode dal curato, ma esortarlo a riflettere con lui sull'alto valore del ministero sacerdotale e a comprendere quanto le sue azioni siano state contrarie alla legge divina cui dovrebbe obbedire. Don Abbondio riconosce che tutto è contro di lui, benché anche i due promessi abbiano le loro colpe in quanto, come si affretta a riferire, hanno tentato l'insidia del "matrimonio a sorpresa": Federigo ribatte di essere a conoscenza della cosa, tuttavia è ben triste che il curato tenti di difendersi accusando i suoi fedeli, poiché i due giovani non avrebbero certo tentato quel sotterfugio se avessero potuto sposarsi regolarmente come era dovere di don Abbondio consentirgli. Inoltre, prosegue il cardinale, quale vantaggio avrebbe portato al curato il loro silenzio, dal momento che il mondo corrotto e perverso si compiace di costringere le vittime dei soprusi a non rivelare a nessuno le ingiustizie subite? I suoi fedeli hanno detto una parola di sfogo al loro vescovo e ciò non deve suscitare la stizza di don Abbondio, anzi, il cardinale lo esorta proprio per questo ad amarli ancor di più, perché sono poveri, indifesi e bisognosi di ogni protezione, e soprattutto perché grazie alle loro preghiere potrà sperare di ottenere il perdono di Dio per le molte mancanze di cui si è reso colpevole.

F. Gonin, Fine del colloquio
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F. Gonin, Fine del colloquio

Il pentimento di don Abbondio. Fine del colloquio

Don Abbondio resta in silenzio ascoltando il discorso del cardinale, ma il suo silenzio non più quello stizzito e impaziente di prima, bensì quello di un uomo che è portato a riflettere sui rimproveri che ha ricevuto per la sua condotta: Federigo lo ha portato a considerare gli insegnamenti del Vangelo che egli ben conosce e che solo per paura è stato indotto a trascurare, mentre il male subìto dal prossimo ora acquista una nuova impressione ai suoi occhi. Il curato prova un po' di rimorso, sia pure attenuato dalla paura per la propria vita che è sempre presente nel suo cuore, simile allo stoppino umido di una candela che è accostato alla fiamma e, dopo aver fumato e scoppiettato alquanto, alla fine si accende e arde; non giunge al punto di piangere e chiedere perdono per le colpe commesse, ma si mostra abbastanza commosso perché il cardinale comprenda che le sue parole hanno sortito un qualche effetto. Federigo afferma che, purtroppo, ora Renzo e Lucia sono lontani e separati l'uno dall'altra, con un incerto avvenire di fronte a sé, dunque non hanno bisogno dell'aiuto di don Abbondio, ma questi viene incitato comunque a stare in attesa degli eventi, in quanto la Provvidenza potrebbe ancora dargli modo di essere utile ai suoi fedeli e farsi perdonare le sue mancanze. Il curato promette con sincerità che, in tal caso, non mancherà di fare il suo dovere e il cardinale si scusa in parte della durezza dei suoi rimproveri, augurandosi che don Abbondio ripaghi la sua fiducia nel mantenerlo nel posto cui ha così gravemente mancato ed esortandolo nuovamente ad avere fiducia in Dio e a riempire il proprio cuore di carità, come del resto è pronto a fare lo stesso Federigo. Il cardinale a questo punto esce accompagnato dal curato, con cui ha successivi colloqui che però non vengono riferiti dall'anonimo, così come sono taciute le molte opere pie compiute dal Borromeo durante il breve soggiorno in quel paese, cosa comune a tutte le visite pastorali fatte da quell'uomo venerando durante il suo episcopato.

F. Gonin, Agnese e il denaro
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F. Gonin, Agnese e il denaro

Lucia si trasferisce da donna Prassede. Il dono dell'innominato ad Agnese

Il mattino dopo giunge in paese, secondo gli accordi fissati, donna Prassede a prendere con sé Lucia, la quale si separa non senza pianti dalla madre Agnese, che in ogni caso potrà ancora vederla prima della partenza per Milano in quanto la nobildonna si tratterrà alcuni giorni nella villa vicino al villaggio del sarto. Intanto il cardinal Borromeo riceve la visita proprio del curato della parrocchia di quel paesino, il quale chiede di parlargli e gli consegna da parte dell'innominato un involto contenente cento scudi d'oro e una lettera: in questa il bandito prega il cardinale di fare avere la somma ad Agnese come parziale risarcimento per il male fatto a Lucia, o tutt'al più come dote per la giovane, esortando le due donne a rivolgersi a lui per qualunque motivo o necessità (Lucia, purtroppo, sa bene dove si trova il suo castello). Il cardinale fa subito chiamare Agnese e le riferisce ogni cosa, consegnandole poi il denaro che la donna prende senza fare troppe cerimonie e pregando Federigo di ringraziare per parte sua l'innominato, raccomandando poi al prelato di mantenere il segreto dal momento che il paese è pieno di chiacchieroni. Agnese torna a casa e ammira con grande stupore il mucchietto d'oro che le è stato consegnato, contando e ricontando più volte le monete e faticando non poco a rimetterle a posto nel rotolo, quindi le avvolge in un cencio e le nasconde nel suo pagliericcio, non cessando per tutta quella giornata di fantasticare su ciò che lei e la figlia potranno fare con tanto denaro piovuto dal cielo. A sera si corica e pensa alle monete, rivedendole poi in sogno.

F. Gonin, Lucia rivela il voto
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F. Gonin, Lucia rivela il voto

Lucia rivela alla madre di aver pronunciato il voto


Il giorno seguente Agnese si incammina alla villa di donna Prassede per vedere Lucia, alla quale rivela subito con grande eccitazione l'inaspettata fortuna del denaro donato dall'innominato: la ragazza non sembra tuttavia rallegrarsene e Agnese, stupita del suo atteggiamento, le rammenta che lei e Renzo sono tutta la sua famiglia e lei è ben disposta a lasciare il suo paese per trasferirsi con loro dove vorranno andare ad abitare, al sicuro dalle insidie di don Rodrigo e purché a Renzo non sia accaduta qualche disgrazia (il giovane, infatti, non ha dato più notizie di sé); grazie a quel denaro tutto è diventato più facile, specie dopo che la giustizia ha requisito i risparmi di Renzo, e infatti Agnese è pronta a venire a Milano a prendere Lucia in compagnia di un uomo assennato, giacché le disgrazie patite l'hanno ormai abituata ad affrontare la vita con un altro spirito. Lucia sembra però accorata dalle parole della madre e, alle domande di questa, le rivela che non può più sposare Renzo e ciò per via del voto pronunciato quand'era prigioniera al castello dell'innominato, scusandosi per non aver detto prima alla madre quel doloroso segreto: Agnese resta costernata ed è tentata di rimproverare la figlia di essere stata precipitosa, ma ne è dissuasa sia dal racconto a tinte fosche che Lucia fa della prigionia che ha subìto dopo essere stata rapita, sia dalla consapevolezza che un voto è qualcosa di sacro e violarlo può portare a castighi strani e terribili, tanto più che la Madonna ha effettivamente esaudito le preghiere della ragazza. Questa, per parte sua, dichiara di essersi votata alla Vergine e di essere nelle Sue mani, affermando poi di non voler più pensare a Renzo poiché, evidentemente, non erano destinati a sposarsi: prega poi la madre di informare Renzo facendo scrivere a un parente una lettera in cui gli spieghi le circostanze del voto, nonché di inviargli la metà dei cento scudi d'oro a mo' di risarcimento per il sacrificio che dovrà fare, sperando che possa mettersi l'animo in pace. Agnese dichiara che lo farà senz'altro e che, in fin dei conti, lei non si aspettava gran che da quel denaro, anche se è certa che la somma non sarà per Renzo fonte di troppa consolazione dal momento che dovrà rinunciare a Lucia. Le due donne si separano poi con molti affettuosi saluti e ripromettendosi di rivedersi l'autunno seguente, mentre la ragazza prega ancora la madre di non dire ad anima viva la faccenda del voto.

F. Gonin, Bortolo
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F. Gonin, Bortolo

Renzo sembra scomparso nel nulla

Passano i giorni e Agnese non riesce ad avere nessuna notizia di Renzo, il quale non ha fatto sapere nulla di sé e nessuno nei dintorni del paese sembra avere la minima idea di cosa gli sia successo. La donna non è l'unica a cercare notizie del giovane filatore, poiché anche il cardinal Borromeo tiene fede alla promessa fatta a lei e a Lucia di raccogliere informazioni su Renzo e già prima di tornare a Milano ha scritto una lettera a questo fine: la risposta che riceve non è rassicurante, poiché gli viene spiegato che il giovane ha effettivamente abitato per un po' nel paese del cugino Bortolo, nel Bergamasco, ma un giorno se ne è andato e non si sa cosa ne sia stato di lui, poiché anche lo stesso Bortolo afferma che forse si è arruolato per andare a combattere in Oriente, forse è partito alla volta della Germania, forse è addirittura morto nel guadare un fiume (lo scrivente promette di stare in guardia e di riferire prontamente al cardinale ulteriori sviluppi in merito). Tali voci si spargono ben presto anche nel paese di Agnese e allarmano non poco la donna, che tenta di capire quali notizie siano vere e quali frutto di chiacchiere o di fantasia, senza tuttavia riuscire a sbrogliare quell'intricata matassa.

Don Gonzalo e il residente (ed. 1840)
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Don Gonzalo e il residente (ed. 1840)

L'intervento di don Gonzalo. Renzo assume una falsa identità

In realtà tutte queste voci su Renzo sono infondate e la verità su come sono andate le cose è presto svelata dall'autore: tutto ha inizio quando il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, protesta vivacemente col residente di Venezia in Lombardia per il fatto che la Repubblica offre asilo e rifugio a un famigerato lestofante ed eccitatore di disordini pubblici quale Lorenzo Tramaglino, che per di più è riuscito a sottrarsi all'arresto dopo essere finito nelle mani della giustizia. Il residente risponde di non saperne nulla e che scriverà subito a Venezia per ottenere qualche ragguaglio, che poi riferirà prontamente al governatore milanese.
La Repubblica di Venezia, spiega l'autore, incoraggia gli operai milanesi della seta a trasferirsi nel territorio di Bergamo come ha fatto Renzo, dunque la sua politica è di assicurar loro molti vantaggi tra cui principalmente la sicurezza: per questo motivo qualcuno avverte Bortolo che Renzo farebbe meglio a cambiare paese e ad assumere una falsa identità per qualche tempo, quindi il cugino del giovane lo porta subito in un filatoio non molto distante da quello in cui già lavora e lo presenta come Antonio Rivolta al padrone dello stabilimento, che è un suo conoscente di origine milanese. Renzo viene assunto grazie alle ottime referenze di Bortolo e il nuovo padrone ne è molto contento, salvo il fatto che il giovane, all'inizio, non si volta subito quando viene chiamato "Antonio" e dà l'impressione di essere un po' tardo di mente. Poco dopo giunge da Venezia un ordine scritto al capitano di Bergamo, che gli fa capire che dovrà prendere informazioni su Renzo in modo da non trovarlo e che la risposta dovrà essere negativa, compito che il capitano esegue alla perfezione (il dispaccio, dopo una lunga trafila burocratica, giungerà a conoscenza del governatore di Milano).
In seguito Bortolo risponde in modo evasivo alle domande su Renzo e talvolta inventa delle storie strampalate per giustificare la sua scomparsa, anche quando le informazioni gli vengono chieste per conto del cardinale pur non nominato (egli intuisce che si tratta di un personaggio di importanza e si insospettisce, dunque non fa capire dove si trovi in realtà Renzo). L'autore avverte tuttavia che sarebbe ingenuo credere che don Gonzalo, altissimo funzionario di Stato e dignitario del governo spagnolo, si sia accanito contro Renzo poiché lo crede un soggetto molto pericoloso, tanto più che egli ha ben altri grattacapi di cui occuparsi: il fatto è che Renzo si è trovato suo malgrado coinvolto in affari molto più grandi di lui, per un concorso singolare di circostanze che verranno spiegate nel capitolo successivo.

Temi principali e collegamenti

- L'inizio del capitolo mostra la conclusione del colloquio tra Don Abbondio e il cardinal Borromeo, al termine del quale il curato appare sinceramente pentito e commosso per i rimproveri subìti, anche se ben presto tornerà lo stesso uomo codardo e tremebondo di sempre (sul dialogo tra i due si veda l'approfondimento del cap. XXV). Don Abbondio avrà comunque modo di riscattarsi moralmente agli occhi dei due promessi, quando alla fine della vicenda otterrà l'interessamento del marchese erede di don Rodrigo per far revocare il mandato di cattura che pende su Renzo e farà in modo che il nobile acquisti i poderi del giovane e di Agnese a un prezzo molto alto (cap. XXXVIII).

- Il cardinale rammenta a don Abbondio che avrebbe potuto informarlo delle pressioni subite da don Rodrigo e che, in ogni caso, non sempre i prepotenti mettono in atto le loro minacce: sono le stesse considerazioni che Perpetua aveva fatto al suo padrone nel cap. I (i "pareri di Perpetua") e che il curato aveva bellamente ignorato a causa della sua vigliaccheria.

- L'innominato fa avere cento scudi d'oro ad Agnese come risarcimento del male compiuto, una somma enorme per l'epoca che eccita subito la fantasia della donna (Agnese è decisamente economa, se non proprio avara, come si era visto nel cap. III allorché rimproverava Lucia per le troppe noci date a fra Galdino). Il suo atteggiamento una volta in possesso dell'oro è piuttosto comico, poiché la donna conta più volte le monete, è goffa nel tentativo di rimetterle nel rotolo, alla fine le nasconde "sotto il materasso" rivedendole addirittura in sogno.

- L'offerta dell'innominato ad Agnese di rivolgersi a lui in caso di necessità verrà in seguito accolta dalla donna, che si recherà insieme a don Abbondio e Perpetua al castello dell'ex-bandito per sfuggire alla calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX).

- Lucia rivela finalmente alla madre il voto pronunciato durante la sua prigionia al castello dell'innominato, in base al quale la ragazza non può più sposare Renzo: il voto non è valido, ma la cosa è ignorata dalle due donne e la stessa Agnese si guarda bene dal dissuadere dalla figlia da un impegno che considera sacro (Lucia non vuole che se parli ad anima viva e questo è il motivo per cui non saprà della nullità della promessa fino a quando glielo spiegherà padre Cristoforo, nel cap. XXXVI). Agnese accetta poi di mandare a Renzo metà dell'oro ricevuto in dono, affermando in modo un po' comico di non tenere troppo a quel denaro (l'atteggiamento della donna fino a quel momento è stato ben diverso). È questo l'ultimo incontro fra madre e figlia, che potranno riabbracciarsi solo nel capitolo finale dopo le traversie dovute alla peste.

- Apprendiamo che Renzo ha dovuto lasciare il paese del cugino Bortolo e assumere per qualche tempo la falsa identità di Antonio Rivolta, tutto a causa delle ricerche (sia pure molto blande e destinate a restare senza esito) delle autorità della Repubblica sul suo conto: tutto nasce dalle pressioni politiche del governatore don Gonzalo sul rappresentante diplomatico di Venezia a Milano, dovute non certo a una personale persecuzione nei confronti del giovane, ma (come verrà spiegato all'inizio del cap. XXVII) per un complesso gioco politico legato alla guerra di Mantova e del Monferrato in cui Renzo si è trovato casualmente implicato. Assolutamente ironico e sproporzionato il paragone tra il giovane filatore in fuga e Annibale Barca, il grande nemico di Roma perseguitato molto tempo dopo la fine della guerra con Cartagine: l'autore vuole sottolineare la distanza abissale che separa i grandi attori della politica internazionale, come don Gonzalo, dai personaggi umili che tuttavia subiscono le conseguenze dei loro maneggi politici (sul punto si veda oltre).

La città di Casale (XVII sec.)
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La città di Casale (XVII sec.)

Don Gonzalo, ovvero l'indifferenza dei potenti per gli umili


Nei Promessi sposi il piano dei personaggi umili è sempre nettamente separato da quello degli uomini politici e di coloro che ricoprono incarichi di governo, poiché questi ultimi agiscono nel chiuso dei loro palazzi e, anche se assumono decisioni che poi incidono in modo drammatico sulla vita dei poveri e dei contadini (come nel caso della guerra o della carestia) non hanno mai contatti diretti con chi appartiene alle classi socialmente inferiori, se non in casi sporadici e talvolta paradossali: l'unica eccezione in questo senso è rappresentata dal cardinal Borromeo, il quale si interessa della vicenda di Lucia e cerca senza successo di informarsi sulla sorte di Renzo in fuga nel Bergamasco, ma il prelato è un uomo che ha fama di santo e non è direttamente coinvolto nel governo della cosa pubblica, dunque è un esempio ben diverso da quello di altre figure storiche verso cui Manzoni concentra la sua critica morale e politica. Curiosamente è sempre Renzo ad avere a che fare, direttamente o meno, con figure storiche legate ai grandi affari della politica e un primo esempio è costituito da Antonio Ferrer, il gran cancelliere dello Stato di Milano che giunge a trarre in salvo il vicario di Provvisione assediato dai rivoltosi nella sua casa durante il tumulto di S. Martino, accolto dalla folla come un benefattore mentre, in realtà, è lui ad aver causato la rivolta coi suoi provvedimenti insensati: l'uomo sorride dalla sua carrozza a Renzo che si fa in quattro per tenere indietro la folla e consentire il suo passaggio, cosicché il giovane crederà assurdamente che l'uomo abbia delle "obbligazioni" nei suoi riguardi e chiederà al notaio criminale che lo arresta di essere condotto al suo cospetto (ovviamente Ferrer non ha idea di chi sia Renzo e il suo atteggiamento benevolo era finalizzato unicamente a rabbonire la folla, fatto questo che viene fortemente esecrato dal romanziere). Lo stesso Renzo avrà, sia pure inconsapevolmente, a che fare anche col governatore dello Stato di Milano in persona, quel don Gonzalo Fernandez de Cordoba che è spesso oggetto di critica e di impietosa ironia da parte di Manzoni (specie per la sua volontà di portare la guerra nel Monferrato), il quale in modo altrettanto inconsapevole finirà per intralciare la vicenda di Renzo fuggiasco e rendere più difficile il suo ricongiungimento con Lucia, nonché il tentativo da parte del cardinale di informarsi sulla sorte del "latitante". La vicenda è narrata tra i capp. XXVI-XXVII e spiega come mai Renzo sembri a un certo punto svanito nel nulla, mettendo in grande agitazione Agnese che cerca invano sue notizie: tutto è nato dalla guerra e dall'assedio di Casale in cui don Gonzalo è impegnato e che ha dovuto lasciare a causa del tumulto dell'11 novembre, in cui anche Renzo è stato coinvolto suo malgrado, e dalla successiva visita che il governatore ha ricevuto da parte del residente di Venezia a Milano, venuto ad "esplorare... come stesse dentro di sé" (l'autore osserva ironicamente che "questa è politica di quella vecchia fine", prendendo le distanze da questo modo ambiguo di trattare gli affari di Stato). Il governatore vuole mascherare il suo imbarazzo per la rivolta scoppiata, temendo che Venezia, possibile alleata dei Francesi nella guerra, possa alzare "la cresta", dunque si lamenta per l'asilo offerto a Renzo in quanto fuggitivo nel Bergamasco e induce il diplomatico veneto a informarsi della cosa, ciò che causa poi le ricerche della giustizia di Bergamo nel paese dove il giovane è rifugiato e il suo trasferimento sotto falso nome per qualche tempo. In realtà si tratta solamente di un complesso gioco delle parti, in quanto a Gonzalo non importa ovviamente nulla di Renzo ma si serve di lui per esercitare pressioni sullo Stato veneto, e dal canto suo la Repubblica non svolge alcuna indagine accurata per rintracciare il filatore, in quanto a Venezia non sono interessati ad aiutare la giustizia milanese (tanto più che ben presto la Serenissima entrerà in guerra contro il Ducato) e del resto il trasferimento di operai milanesi nel territorio di Bergamo viene caldamente incoraggiato, perciò è ovvio che le indagini sul conto di Renzo non dovranno dare alcun concreto risultato. Di tutto ciò, tuttavia, Renzo è totalmente ignaro e a causa di tali maneggi politici avrà molte difficoltà ad entrare in contatto con Agnese, senza contare che la cosa vanifica l'interessamento generoso del cardinale che, forse, poteva essergli utile: l'autore sottolinea con sarcasmo questa sorta di "balletto diplomatico" tra Milano e Venezia, anzitutto col dire che "tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda" (dunque Renzo è oggetto di contesa tra due potenze rivali, che non pensano al suo destino ma ai loro rispettivi interessi) e poi descrivendo la trafila burocratica con cui il dispaccio di risposta arriva a don Gonzalo dopo essere passato per le mani del capitano di Bergamo, del residente e infine di Ferrer, con la consueta imitazione dello stile "cancelleresco" dei documenti dell'epoca (di cui ci sono vari esempi nel corso del romanzo). E che tutta questa manfrina sia destinata a non portare a nulla, salvo che a complicare la vita già difficile del povero Renzo in fuga, è dimostrato dal modo comico con cui proprio don Gonzalo riceve la risposta negativa sul suo conto delle autorità veneziane, ovvero (cap. XXVII) quando si trova di nuovo nel campo di assedio di casale ed ha ben altri pensieri per il capo: "alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia" (non deve sfuggire il riferimento ironico alla manifattura della seta, chiaramente connessa con la vicenda di Renzo), cercando cioè di rammentare l'oggetto di quella comunicazione, e una volta ricordatosi di che si trattava "non ci pensò più", dimostrando quanto poco fosse interessato all'intera questione e che tutto il "fracasso" fatto per la clamorosa fuga del giovane aveva scopi del tutto estranei alla vicenda del povero filatore. Il governatore dimostra in questo episodio il carattere vacuo e frivolo della politica attuata dagli alti dignitari protagonisti della narrazione, i quali badano più alle forme che alla sostanza e si disinteressano delle conseguenze concrete che le loro azioni possono produrre sugli umili che sono chiamati a governare, come si vede nella vicenda fittizia ma significativa di Renzo e come si vedrà in quelle, purtroppo drammaticamente vere, della carestia e del successivo diffondersi della peste, nelle quali don Gonzalo avrà molte responsabilità e che infatti pagherà con l'allontanamento dalla sua carica e da Milano, accompagnato dai fischi e dalle rimostranze della popolazione (la cosa è descritta nel cap. XXVIII, allorché Manzoni ricorda che il personaggio aveva "una gran smania d’acquistarsi un posto nella storia", anche se i suoi provvedimenti insensati gli hanno procurato più infamia che lode per le sofferenze inflitte a quella popolazione che avrebbe dovuto curare e di cui, invece, si è sempre disinteressato).

Capitolo XXVI
A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
- Voi non rispondete? - riprese il cardinale. - Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque maniera poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta. Vedete dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete ubbidito all’iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva. L’avete ubbidita puntualmente: s’era fatta vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell’agio i suoi disegni d’insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non parlavate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati de’ pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo -. E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una risposta.
“Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone”, pensava don Abbondio; ma non dava segno d’aver nulla da dire; onde il cardinale riprese: - se è vero, che abbiate detto a que’ poverini ciò che non era, per tenerli nell’ignoranza, nell’oscurità, in cui l’iniquità li voleva... Dunque lo devo credere; dunque non mi resta che d’arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che v’ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V’ha condotto... ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono... v’ha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.
“Ecco come vanno le cose, - diceva ancora tra sé don Abbondio: - a quel satanasso, - e pensava all’innominato, - le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta [1], che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi”. E ad alta voce, disse: - ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?
- E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l’iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de’ colpi da dare, ma non de’ comandi; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva separare; avreste prestato a quegl’innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore [2] Iddio, perché si sarebbe andati per la sua strada: avendone presa un’altra, ne restate mallevadore voi; e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che non era aperta alcuna via di scampo, quand’aveste voluto guardarvi d’intorno, pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que’ vostri poverini, quando fossero stati maritati, avrebbero pensato da sé al loro scampo, eran disposti a fuggire dalla faccia del potente, s’eran già disegnato il luogo di rifugio. Ma anche senza questo, non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il quale, come mai avrebbe quest’autorità di riprendervi d’aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l’obbligo d’aiutarvi ad adempirlo? Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo dell’impedimento che un’infame violenza metteva all’esercizio del vostro ministero?
“I pareri di Perpetua!” pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a que’ discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di que’ bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi.
- Come non avete pensato, - proseguiva questo, - che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c’ero io, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita? Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?
“Proprio le ragioni di Perpetua”, pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
- Ma voi, - proseguì e concluse il cardinale, - non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?
- Gli è perché le ho viste io quelle facce, - scappò detto a don Abbondio; - le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto [3].
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: “ora vien la grandine”. Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell’uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.
- Pur troppo! - disse Federigo, - tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri l’esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito [4]. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov’è mancato l’esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono.
“Oh che sant’uomo! ma che tormento! - pensava don Abbondio: - anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé”. Disse poi ad alta voce: - oh, monsignore! che mi fa celia? [5] Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? - E tra sé soggiunse: “anche troppo”.
- Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, - disse Federigo, - perché Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch’io, basta a confondermi. Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.
- Tutto casca addosso a me, - disse don Abbondio: - ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essersi introdotte in casa mia, a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.
- Me l’hanno detto, figliuolo: ma questo m’accora, questo m’atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate materia d’accusa da ciò che dovrebb’esser parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? [6] e vi sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso dell’oppresso, la querela dell’afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale; ma noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione d’amar queste persone (e già tante ragioni n’avete), che v’abbian dato occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v’abbian dato un mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se v’avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d’amarli, appunto per questo. Amateli perché hanno patito, perché patiscono, perché son vostri, perché son deboli, perché avete bisogno d’un perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro preghiera.
Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
- Ora, - proseguì questo, - uno fuggitivo da casa sua, l’altra in procinto d’abbandonarla, tutt’e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne alcuna nell’avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette [7], pregatelo che le faccia nascere.
- Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, - rispose don Abbondio, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
- Ah sì, figliuolo, sì! - esclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto, concluse: - lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Tutt’e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non fate che m’abbia a chieder conto, in quel giorno, d’avervi mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo il tempo [8]: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade [9]. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.
Qui l’anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di que’ due personaggi, né Lucia il solo argomento de’ loro abboccamenti; ma che lui s’è ristretto a questo, per non andar lontano dal soggetto principale del racconto. E che, per lo stesso motivo, non farà menzione d’altre cose notabili, dette da Federigo in tutto il corso della visita, né delle sue liberalità, né delle discordie sedate, degli odi antichi tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (cosa ch’era pur troppo più frequente) sopiti, né di qualche bravaccio o tirannello ammansato, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali ce n’era sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi dove quell’uomo eccellente facesse qualche soggiorno.
Dice poi, che, la mattina seguente, venne donna Prassede, secondo il fissato, a prender Lucia, e a complimentare il cardinale, il quale gliela lodò, e raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che pianti; e uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese, con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma i congedi con la madre non eran gli ultimi; perché donna Prassede aveva detto che si starebbe ancor qualche giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana; e Agnese promise alla figlia d’andar là a trovarla, a dare e a ricevere un più doloroso addio.
Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello dell’innominato. Introdotto, gli presentò un gruppo [10] e una lettera di quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d’oro ch’eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell’uso che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una delle fortune più desiderate. Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che maraviglia; e le presentò il rotolo, ch’essa prese, senza far gran complimenti. - Dio gliene renda merito, a quel signore, - disse: - e vossignoria illustrissima lo ringrazi tanto tanto. E non dica nulla a nessuno, perché questo è un certo paese... Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a chiacchierare di queste cose; ma... lei m’intende.
Andò a casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo, e quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti di que’ ruspi [11], de’ quali non aveva forse mai visto più d’uno per volta, e anche di rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli lì tutti, ché ogni momento facevan pancia [12], e sgusciavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l’andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone. Il resto di quel giorno, non fece altro che mulinare [13], far disegni sull’avvenire, e sospirar l’indomani. Andata a letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que’ cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All’alba, s’alzò e s’incamminò subito verso la villa, dov’era Lucia.
Questa, dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella gran ripugnanza a parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d’aprirsene con la madre in quell’abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l’ultimo.
Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a voce bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi sentire, cominciò: - ho da dirti una gran cosa; - e le raccontò l’inaspettata fortuna.
- Iddio lo benedica, quel signore, - disse Lucia: - così avrete da star bene voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.
- Come? - rispose Agnese: - non vedi quante cose possiamo fare, con tanti danari? Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perché Renzo, da che cominciò a discorrerti [14], l’ho sempre riguardato come un mio figliuolo. Tutto sta che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non ha mai fatto saper nulla: ma eh! deve andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per me, avrei avuto caro di lasciar l’ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare d’averlo vicino colui, m’è venuto in odio il mio paese: e con voi altri io sto per tutto. Ero disposta, fin d’allora, a venir con voi altri, anche in capo al mondo; e son sempre stata di quel parere; ma senza danari come si fa? Intendi ora? Que’ quattro, che quel poverino aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta la giustizia, e ha spazzato ogni cosa; ma, per ricompensa, il Signore ha mandato la fortuna a noi. Dunque, quando avrà trovato il bandolo [15] di far sapere se è vivo, e dov’è, e che intenzioni ha, ti vengo a prender io a Milano; io ti vengo a prendere. Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le disgrazie fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos’è viaggiare. Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire Alessio di Maggianico: ché, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c’è: vengo con lui: già la spesa la facciamo noi, e... intendi?
Ma vedendo che, in vece d’animarsi, Lucia s’andava accorando, e non dimostrava che una tenerezza senz’allegria, lasciò il discorso a mezzo, e disse: - ma cos’hai? non ti pare?
- Povera mamma! - esclamò Lucia, gettandole un braccio al collo, e nascondendo il viso nel seno di lei.
- Cosa c’è? - domandò di nuovo ansiosamente la madre.
- Avrei dovuto dirvelo prima, - rispose Lucia, alzando il viso, e asciugandosi le lacrime; - ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.
- Ma dì su, dunque.
- Io non posso più esser moglie di quel poverino!
- Come? come?
Lucia, col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi racconta una cosa che, quand’anche dispiacesse, non si può cambiare, rivelò il voto; e insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non aver parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e d’aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.
Agnese era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo proprio; voleva dirle: cos’hai fatto? ma le pareva che sarebbe un prendersela col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipinger co’ più vivi colori quella notte, la desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, ad Agnese veniva anche in mente questo e quell’esempio, che aveva sentito raccontar più volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Dopo esser rimasta un poco come incantata, disse: - e ora cosa farai?
- Ora, - rispose Lucia, - tocca al Signore a pensarci; al Signore e alla Madonna. Mi son messa nelle lor mani: non m’hanno abbandonata finora; non m’abbandoneranno ora che... La grazia che chiedo per me al Signore, la sola grazia, dopo la salvazion dell’anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me la concederà. Quel giorno... in quella carrozza... ah Vergine santissima!... quegli uomini!... chi m’avrebbe detto che mi menavano da colui che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?
- Ma non parlarne subito a tua madre! - disse Agnese con una certa stizzetta temperata d’amorevolezza e di pietà.
- Compatitemi; non avevo cuore... e che sarebbe giovato d’affliggervi qualche tempo prima?
- E Renzo? - disse Agnese, tentennando il capo. `
- Ah! - esclamò Lucia, riscotendosi, - io non ci devo pensar più a quel poverino. Già si vede che non era destinato... Vedete come pare che il Signore ci abbia voluti proprio tener separati. E chi sa...? ma no, no: l’avrà preservato Lui da’ pericoli, e lo farà esser fortunato anche di più, senza di me.
- Ma intanto, - riprese la madre, - se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non gli sia accaduta qualche disgrazia, con que’ danari io ci avevo trovato rimedio.
- Ma que’ danari, - replicò Lucia, - ci sarebbero venuti, s’io non avessi passata quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà -. E la parola morì nel pianto.
A quell’argomento inaspettato, Agnese rimase lì pensierosa. Dopo qualche momento, Lucia, rattenendo i singhiozzi, riprese: - ora che la cosa è fatta, bisogna adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi... bisogna bene che quel poverino lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; ché voi ci potete pensare. Quando saprete dov’è, fategli scrivere, trovate un uomo... appunto vostro cugino Alessio, che è un uomo prudente e caritatevole, e ci ha sempre voluto bene, e non ciarlerà: fategli scriver da lui la cosa com’è andata, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che metta il cuore in pace, e ch’io non posso mai mai esser di nessuno. E fargli capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio fatto voto. Quando saprà che ho promesso alla Madonna... ha sempre avuto il timor di Dio. E voi, la prima volta che avrete le sue nuove, fatemi scrivere, fatemi saper che è sano; e poi... non mi fate più saper nulla.
Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come desiderava.
- Vorrei dirvi un’altra cosa, - riprese questa: - quel poverino, se non avesse avuto la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto ciò che gli è accaduto. È per il mondo; gli hanno troncato il suo avviamento, gli hanno portato via la sua roba, que’ risparmi che aveva fatti, poverino, sapete perché... E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma! giacché il Signore ci ha mandato tanto bene, e quel poverino, è proprio vero che lo riguardavate come vostro... sì, come un figliuolo, oh! fate mezzo per uno; ché, sicuro, Iddio non ci mancherà. Cercate un’occasione fidata, e mandateglieli, ché sa il cielo come n’ha bisogno!
- Ebbene, cosa credi? - rispose Agnese: - glieli manderò davvero. Povero giovine! Perché pensi tu ch’io fossi così contenta di que’ danari? Ma...! io era proprio venuta qui tutta contenta. Basta, io glieli manderò, povero Renzo! ma anche lui... so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi n’ha bisogno; ma questi non saranno quelli che lo faranno ingrassare.
Lucia ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza, con una gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l’avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse.
- E senza di te, che farò io povera donna? - disse Agnese, piangendo anch’essa.
- E io senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù in quel Milano...! Ma il Signore sarà con tutt’e due; e poi ci farà tornare insieme. Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora, e anche prima, spero, avrà accomodate le cose Lui, per riunirci. Lasciamo fare a Lui. La chiederò sempre sempre alla Madonna questa grazia. Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo farei; ma è tanto misericordiosa, che me l’otterrà per niente.
Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto, di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e promesse di non dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno, al più tardi; come se il mantenere dipendesse da loro, e come però si fa sempre in casi simili.
Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper nulla di Renzo. Né lettere né imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, a cui poté domandare, nessuno ne sapeva più di lei.
E non era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia [16] alle povere donne, di voler prendere informazioni del povero giovine, aveva infatti scritto subito per averne. Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuto la risposta in cui gli si diceva che non s’era potuto trovar recapito dell’indicato soggetto; che veramente era stato qualche tempo in casa d’un suo parente, nel tal paese, dove non aveva fatto dir di sé; ma, una mattina, era scomparso all’improvviso, e quel suo parente stesso non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovine arrolato per il Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume: che non si mancherebbe di stare alle velette, se mai si potesse saper qualcosa di più positivo, per farne subito parte a sua signoria illustrissima e reverendissima.
Più tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d’Agnese. La povera donna faceva di tutto per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, anche al giorno d’oggi, basta da sé ad attestar tante cose. Talora, appena glien’era stata raccontata una, veniva uno e le diceva che non era vero nulla; ma per dargliene in cambio un’altra, ugualmente strana o sinistra. Tutte ciarle: ecco il fatto.
Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente [17] di Venezia in Milano, perché un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e d’omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli riusciva nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella spiegazione che il caso avesse portato.
A Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l’inclinazione degli operai di seta milanesi a trasportarsi [18] nel territorio bergamasco, e quindi di far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse a dir la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un altro filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto il nome d’Antonio Rivolta, al padrone, ch’era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente. Questo, quantunque l’annata fosse scarsa, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e abile, da un galantuomo che se n’intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine dovesse essere un po’ stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva.
Poco dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che prendesse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tal soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze, come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, la quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse al gran cancelliere che potrebbe trasmetterla a don Gonzalo Fernandez di Cordova.
Non mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perché quel giovine non c’era più, e dove fosse andato. Alla prima domanda Bortolo rispondeva: - ma! è scomparso -. Per mandar poi in pace i più insistenti, senza dar loro sospetto di quel che n’era davvero, aveva creduto bene di regalar loro, a chi l’una, a chi l’altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, come cose incerte, che aveva sentite dire anche lui, senza averne un riscontro positivo.
Ma quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale, senza nominarlo, e con un certo apparato d’importanza e di mistero, lasciando capire ch’era in nome d’un gran personaggio, tanto più Bortolo s’insospettì, e credé necessario di risponder secondo il solito; anzi, trattandosi d’un gran personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate a una a una, in quelle diverse occorrenze.
Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l’avesse proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse del poco rispetto usato, e delle cattive parole dette da colui al suo re moro incatenato per la gola, volesse fargliela pagare; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale [19]. Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de’ fatti di Renzo; e se parve che se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.

Note
1. Il mio destino.
2. Garante.
3. In quella situazione.
4. Federigo cita il Vangelo di Matteo (XXIII, 4), nel brano in cui Gesù accusa i dottori della legge di imporre agli altri pesi che sarebbero insopportabili anche per loro.
5. Mi prende in giro, si burla di me?
6. Imputate una colpa?
7. State all'erta (le velette sono le piccole vele poste sull'albero della nave dove c'è anche la gabbia, da cui un marinaio sta a turno di vedetta; nel linguaggio marinaro sono dette anche vele di gabbia).
8. Riguadagniamo il tempo perduto (Federigo cita un'espressione di S. Paolo nella Lettera agli Efesini, V, 16).
9. Il cardinale si riferisce alla parabola evangelica delle vergini savie e delle vergini folli (Matt., XXV, 1-13): le prime tengono accese le loro lampade (sono ripiene di carità) e attendono lo sposo (Gesù) alla mezzanotte (la fine della vita), le seconde dimenticano di versare l'olio nelle lampade e restano senza nozze (prive di carità, non ottengono la vita eterna).
10. Un involto, un rotolo.
11. Parola fiorentina che indica le monete d'oro zecchino, coniate di fresco.
12. Il rotolo si piegava.
13. Fantasticare.
14. A corteggiarti, per chiederti in sposa.
15. Il mezzo.
16. Tanto per dire, in modo formale.
17. Il residente era il rappresentante diplomatico della Repubblica di Venezia a Milano, una specie di moderno ambasciatore: all'epoca si trattava di Pietro Antonio Marini.
18. Trasferirsi.
19. Annibale Barca, famoso generale cartaginese protagonista della seconda guerra punica (218-202 a.C.), fu a lungo perseguitato dai Romani che lo consideravano una minaccia anche dopo il suo esilio, tanto che fu costretto a suicidarsi per non finire nelle loro mani.

Fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxvi.html

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