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Capitolo XXVIII

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I Promessi Sposi
 · 1 Jun 2019
G. De Chirico, Don Gonzalo lascia Milano
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G. De Chirico, Don Gonzalo lascia Milano

"In quanto a don Gonzalo, poco dopo quella risposta,
se n'andò da Milano; e la partenza fu trista per lui,
come lo era la cagione. Veniva rimosso per i cattivi
successi della guerra, della quale era stato
il promotore e il capitano;
e il popolo lo incolpava della fame sofferta
sotto il suo governo. All'uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, fu accolto con gran fischiate
da ragazzi ch'eran radunati sulla piazza del duomo.
Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche
a tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d'ogni sorte..."


Personaggi: Antonio Ferrer, il cardinal Borromeo, don Gonzalo Fernandez de Cordoba, Ambrogio Spinola, il popolo di Milano

Luoghi: Milano, il lazzaretto, la Lombardia

Tempo: Dall'11 novembre 1628 all'autunno 1629

Temi: La giustizia, La carestia, Il tumulto di S. Martino, La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, La peste, Chiesa e religione

Trama: Provvedimenti del governo di Milano dopo il tumulto di S. Martino. La carestia si aggrava in tutto il Ducato. Il cardinal Borromeo soccorre con opere di carità i bisognosi in città. Il lazzaretto diventa il luogo in cui sono ammassati i poveri e gli accattoni. Aumento delle febbri e della mortalità tra la popolazione di Milano. Le vicende della guerra di Mantova e l'allontanamento del governatore don Gonzalo da Milano. La discesa dei lanzichenecchi in Lombardia e i loro tremendi saccheggi.

F. Gonin, L'abbondanza
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F. Gonin, L'abbondanza

Il prezzo del pane ribassato dopo il tumulto

Nei giorni seguenti al tumulto di S. Martino (11 e 12 novembre 1628) il prezzo del pane a Milano torna ad essere abbassato per effetto di nuove gride e i rivoltosi che hanno preso parte alla sommossa ne sono soddisfatti, persuasi che ciò sia un risultato dei disordini: tutti però temono che la cosa non durerà a lungo e perciò c'è una vera corsa ai forni ad acquistare pane a prezzo ribassato, cosicché ben presto pane e farina iniziano a scarseggiare. Per questo il gran cancelliere Antonio Ferrer il 15 novembre pubblica una nuova grida con cui si proibisce a chi ha in casa grano o farina di acquistare altro pane e a tutti gli altri intima di non comprare pane in quantità superiore al bisogno di due giorni, sotto minaccia di severe pene pecuniarie e corporali. Allo stesso tempo le autorità milanesi impongono ai fornai di continuare a produrre pane in quantità e minacciano anche a loro pene severe in caso di mancato adempimento, con un'evidente contraddizione che l'autore mette in risalto in modo ironico. Oltretutto occorre rifornire i fornai della materia prima per produrre il pane e a tal fine si pensa di fare entrare il riso nel composto del pane "di mistura", ovvero ottenuto mescolando al grano anche orzo e vecce: una nuova grida datata 23 novembre ordina di sequestrare tutto il riso non brillato ancora presente in città, minacciando le solite pene severissime a chi lo nasconda e non lo consegni alle autorità. Poiché tuttavia occorre pagare questo riso a un prezzo troppo alto rispetto a quello del pane, inizialmente viene imposto alla città di ripianare la differenza, finché il consiglio dei Decurioni dichiara al governatore don Gonzalo l'insostenibilità di una tale situazione. Il governatore pubblica un'ulteriore grida (7 dicembre) con cui fissa il prezzo massimo del riso non brillato a dodici lire il moggio, mentre è probabile che un calmiere simile sia stato fissato anche per il grano e altri cereali, come già prima era stato fatto per il riso brillato.

Rivoltosi impiccati (ed. 1840)
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Rivoltosi impiccati (ed. 1840)

Il popolo accorre a Milano dal contado. Effetti dei provvedimenti del governo

Il pane e la farina vengono mantenuti artificiosamente a buon prezzo e la logica conseguenza è che il popolo accorra in gran numero a Milano dalle campagne per acquistarlo: per ovviare al problema, don Gonzalo pubblica l'ennesima grida il 15 dicembre con cui proibisce di portare pane fuori dalla città per più di venti soldi e un'altra simile il 22 dicembre riguardante la farina e il grano. I rivoltosi hanno voluto produrre l'abbondanza con forza e con la violenza e allo stesso modo il governo intende mantenerla, anche se ciò a lungo andare causerà l'esaurimento delle scorte di farina, e del resto ogni provvedimento è parte di una catena di eventi che ha origine dal fatto che il prezzo del pane è ribassato in spregio di ogni legge economica e del buon senso. L'autore osserva che quando c'è carestia il popolo reclama a gran voce provvedimenti di tal genere e quando ne ha la possibilità li impone con la sommossa, per cui il governo è poi obbligato ad emanare nuove leggi per rimediare alle conseguenze negative che inevitabilmente si creano come in un "effetto domino". Qualcosa di simile è avvenuto anche in Francia durante la Rivoluzione del 1789, nonostante i progressi compiuti dalla scienza e dalla filosofia a partire dal XVII secolo, e ciò perché la massa popolare ignora tali cognizioni e impone la sua volontà con la violenza e il saccheggio. Anche il tumulto di S. Martino ha dunque prodotto conseguenze nefaste, ovvero lo sperpero di grano e farina durante l'assalto ai forni e il consumo eccessivo delle scorte nei giorni seguenti, senza contare l'impiccagione di quattro rivoltosi arrestati in seguito ai disordini, due davanti al forno delle Grucce e due vicino alla casa del vicario di Provvisione.

Accattoni a Milano (ed. 1840)
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Accattoni a Milano (ed. 1840)

La carestia riesplode in tutta la sua virulenza

Non è neppure chiaro quando il calmiere imposto al prezzo del pane venga abolito, anche se secondo l'autore ciò dev'essere avvenuto poco prima del 24 dicembre 1628, giorno dell'esecuzione dei presunti capi della sommossa: del resto dopo la grida del 22 dicembre non si ha notizia di altri provvedimenti in materia, e gli storici si sono limitati a descrivere la situazione di Milano quando la carestia riesplode con tutta la sua violenza, cosa inevitabile dato che i provvedimenti del governo hanno portato al rapido esaurimento delle scorte, mentre vi sono troppi ostacoli (scarsità di fondi, dazi doganali) al reperimento di altro grano presso gli Stati esteri. Lo spettacolo della città nei mesi seguenti è a dir poco desolante: botteghe chiuse, fabbriche abbandonate, le strade invase da un numero incredibilmente accresciuto di accattoni, poiché a quelli di mestiere si sono aggiunti come loro concorrenti i nuovi poveri che cercano di ottenere l'elemosina. Tra questi vi sono garzoni licenziati dalle botteghe, padroni stessi rovinati dal calo degli affari, operai rimasti senza lavoro, tutti intenti a chiedere la carità e smunti dalla fame, combattuti tra l'antica dignità e il bisogno che li spinge a domandare del pane per sopravvivere. Tra questi mendicanti vi sono anche i servitori di nobili non ancora caduti in miseria, ma impoveritisi al punto di non poter mantenere un largo seguito, e insieme a loro vi sono anche donne, vecchi, bambini che campavano grazie ai loro guadagni. Non è poi insolito vedere per strada anche dei bravi, licenziati dai loro signori e riconoscibili dai loro ciuffi arruffati, costretti ora a stendere la mano che in passato hanno spesso usato per minacciare o ferire a tradimento.

Contadini impoveriti affollano la città
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Contadini impoveriti affollano la città

Contadini impoveriti affollano la città

Al triste esercito dei mendicanti si aggiungono presto anche i contadini venuti a Milano dalla campagna con le famiglie al seguito, poiché spesso le loro case sono state spogliate dalle soldatesche: molti di loro conservano le ferite inferte dai militari, mentre altri hanno evitato le violenze dell'esercito ma non la penuria e le tasse esorbitanti imposte a causa della guerra, per cui si sono riversati in città sperando di ricevere soccorso e qui, invece, trovano una gran massa di accattoni pronti a far loro una spietata concorrenza. I contadini sono vestiti in modo diverso a seconda della loro provenienza (in realtà indossano per lo più stracci), sono più o meno abbronzati, ma tutti hanno il volto smunto e stravolto dalla fame, i capelli arruffati, le barbe incolte, la pelle raggrinzita. Qua e là per le strade viene gettata a terra della paglia mista a luridi cenci ed essa offre un improvvisato giaciglio ai poveri, alcuni dei quali vi restano sdraiati anche di giorno, vinti dalla debolezza, e tavolta vi muoiono; non di rado, inoltre, qualcuno cade improvvisamente a terra cadavere, stremato dalla mancanza di cibo.

F. Gonin, Le opere di carità
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F. Gonin, Le opere di carità

L'intervento caritatevole del cardinal Borromeo


In un tale squallore non manca tuttavia l'intervento della carità popolare e tra le molte opere spicca quella del cardinal Borromeo, il quale incarica sei preti di dividersi in coppie e di girare nelle strade, seguiti da facchini che portano cibo, medicinali, vesti con cui soccorrere i bisognosi. Talvolta essi non possono fare altro che dare ai poveri moribondi i conforti religiosi, mentre in altri casi riescono a distribuire uova, pane, minestra, oppure brodo e vino per ristorare gli affamati, coprendo con vestiti le nudità più sconce. Essi danno inoltre un po' di denaro a quei poveri che riescono a rimettersi in piedi, cercando agli altri un ricovero in qualche casa signorile vicina o alloggiandoli altrove pagando la pensione, mentre i parroci vengono incaricati di visitarli periodicamente. Il cardinale stesso cerca di risparmiare il più possibile e di raccogliere il denaro necessario per gli interventi caritatevoli, facendo tra l'altro acquistare del grano e del sale e inviandolo in vari luoghi della diocesi. Nel palazzo arcivescovile ogni giorno vengono distribuite duemila scodelle di minestra di riso, come il medico Alessandro Tadino testimonia in una sua opera (il Ragguaglio sulla peste del 1630) che verrà spesso citata in seguito. Tuttavia il bisogno è troppo grande perché questi e altri simili interventi della carità pubblica possano sopperirvi, infatti alcuni contadini vengono salvati dalla morte per fame e altri invece vi sono vicini; alcuni vengono sollevati dal soccorso immediato, ma poi ricadono nella povertà e nella fame, mentre nei luoghi dove gli interventi sono impossibili la situazione si aggrava e a Milano accorre un fiume di gente sempre più numeroso. In città diventa sempre più difficile soccorrere gli affamati e i decessi iniziano a moltiplicarsi, mentre di giorno nelle strade si sente un ronzio continuo di voci supplichevoli e di notte un mormorio lamentoso, interrotto talvolta da urla e grida improvvise.

F. Gonin, La donna morta col bambino
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F. Gonin, La donna morta col bambino

La situazione di Milano si aggrava sempre di più

In una situazione così grave non si verifica tuttavia il minimo accenno di sommossa o di sollevazione popolare, cosa non spiegabile col solo esempio dei quattro rivoltosi impiccati nei mesi precedenti: l'autore osserva con amarezza che ciò è da attribuire alla natura umana, poiché le persone si ribellano prontamente ai mali di minore gravità e poi piegano il capo di fronte a quelli estremi, come la fame. A Milano il numero dei morti cresce di giorno in giorno ed essi vengono prontamente sostituiti da nuovi affamati provenienti dai paesi vicini, mentre alcuni abitanti lasciano la città per non vedere quello spettacolo penoso o per cercare l'elemosina dove non ci sia quella concorrenza così numerosa e spietata (le due processioni, di chi viene e di chi va, rappresentano un reciproco e sinistro augurio). Molti cadono morti lungo il cammino da e verso la città, come accade a una donna che viene trovata cadavere lungo la strada accanto alle mura di Milano, con dell'erba in bocca e un bambino di pochi mesi in collo, subito raccolto e soccorso da alcune persone che hanno trovato il corpo della madre (l'aneddoto è narrato dallo storico Giuseppe Ripamonti).
Nelle strade di Milano non si vede più il consueto contrasto tra lo sfarzo dei nobili e la miseria dei poveri, sia perché molti signori si sono impoveriti, sia perché essi in qualche caso hanno pudore di mostrarsi con la solita pompa al seguito. Alcuni antichi prepotenti camminano soli e non più scortati dai bravi come in passato, mentre altri più caritatevoli sembrano costernati dallo spettacolo desolante della diffusa povertà, e se fanno l'elemosina devono scegliere chi aiutare, perché spesso accanto a una mano tesa si affollano molti altri bisognosi e solo i più robusti e più forti riescono a farsi largo.

Il lazzaretto (ediz. 1840)
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Il lazzaretto (ediz. 1840)

Il lazzaretto di Milano

Arriva la primavera del 1629 e la situazione a Milano diventa sempre più grave, con il moltiplicarsi dei morti nelle strade e il pericolo crescente della diffusione di malattie contagiose, per cui il Tribunale di Sanità propone a quello di Provvisione di raccogliere gli accattoni in diversi ricoveri della città. Si pensa di adibire a questo scopo il lazzaretto e di rinchiudere lì tutti i mendicanti di Milano, cosa a cui la Sanità vanamente si oppone in quanto l'ammassare quelle persone in un sol luogo rischia di diffondere ulteriormente il contagio. Il lazzaretto è un recinto di forma rettangolare posto fuori delle mura di Milano, vicino a Porta Orientale, circondato da una specie di fossato: i due lati maggiori misurano circa cinquecento passi e gli altri due quindici di meno, sono divisi all'esterno in piccole stanze su un solo piano e all'interno sono percorsi da un portico che ruota su tre lati, sostenuto da piccole colonne. All'epoca delle vicende del romanzo le stanze sono poco meno di trecento, mentre nel XIX sec. due aperture prodotte nella recinzione ne hanno ridotto il numero. Nel XVII sec. il lazzaretto ha solamente due ingressi, uno rivolto verso le mura cittadine e l'altro dal lato opposto, mentre al centro dello spazio interno c'è una piccola chiesa a forma di ottagono ancora presente nell'800. L'edificio venne progettato nel 1489 grazie a un lascito privato ed era stato destinato inizialmente al ricovero degli appestati (come il nome stesso suggerisce), funzione che ha assolto tutte le volte in cui a Milano ha fatto la sua comparsa la peste. Nel 1628-29 serve unicamente come deposito di quelle merci che devono essere tenute in contumacia, cioè trattenute in quanto si sospetta che possano essere infette.

F. Gonin, Gli accattoni al lazzaretto
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F. Gonin, Gli accattoni al lazzaretto

Gli accattoni vengono mandati al lazzaretto

Le autorità cittadine decidono di liberare il lazzaretto in fretta e furia, facendone uscire tutte le merci in seguito a controlli sommari, quindi si mette della paglia in tutte le stanze e si acquistano viveri per sfamare gli accattoni che subito dopo, con provvedimento pubblico, vengono invitati a recarsi in quel luogo. Molti di loro vi accorrono spontaneamente e quelli che giacciono moribondi nelle strade vi vengono portati di peso, raggiungendo in totale il numero di circa tremila persone; molti altri mendicanti restano fuori, forse nella speranza di ottenere maggiori elemosine dato il numero ridotto di concorrenti, o forse solo per diffidenza verso le autorità pubbliche e la ripugnanza ad essere rinchiusi in uno spazio malsano in cui la vita non può che essere molto dura. A questo punto le autorità di Milano decidono di passare alla forza e i birri vengono mandati nelle strade a raccogliere gli accattoni e portarli al lazzaretto anche contro il loro volere, dietro il compenso di dieci soldi per ogni soggetto arrestato; molti mendicanti lasciano la città, mentre il numero di quelli ammassati nel lazzaretto, tra gli ospiti volontari e prigionieri, arriva al numero spaventoso di diecimila persone. L'autore suppone che le donne e i bambini siano stati separati dagli uomini, benché nessun documento dell'epoca sembri testimoniare un simile provvedimento, così come probabilmente le autorità cittadine cercano di mantenere l'ordine all'interno del lazzaretto, anche se la cosa è ovviamente difficile date le condizioni precarie di tutto quello spazio: tra i ricoverati vi sono accattoni di professione e nuovi poveri, persone oneste e ladri abituati alla truffa e alla violenza, per cui la convivenza forzata di quel triste popolo non può che essere squallida e penosa. Dormono tutti accalcati a terra dentro le piccole stanze, a venti o trenta per volta, o sotto il portico, stesi su paglia putrida o sulla nuda terra (la paglia dovrebbe essere fresca e cambiata di frequente, ma in realtà essa è sporca e non viene sostituita). Il pane è scarso e di pessima qualità, cosa inevitabile in simili circostanze, per di più alterato con sostanze poco nutrienti, mentre persino l'acqua scarseggia e dev'essere attinta dall'acqua stagnante del fossato circostante, resa oltretutto fangosa dall'uso di tante persone ammassate in quel triste luogo.

Si aprono le porte del lazzaretto (ed. 1840)
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Si aprono le porte del lazzaretto (ed. 1840)

Cresce la mortalità nel lazzaretto. I sani vengono fatti uscire

Alle cause già tanto numerose di mortalità si aggiunge anche la cattiva stagione, le piogge frequenti seguite da periodi di siccità intensa e da un caldo violento e improvviso: la vita all'interno del lazzaretto si fa di giorno in giorno più difficile, resa ancor più penosa dalla prigionia e dal ricordo dei cari perduti o lontani, per cui tutto ciò non fa che accrescere e rendere più facile la mortalità. Tra la popolazione del lazzaretto si diffondono ben presto malattie contagiose ed epidemiche, naturalmente favorite dall'ammasso in un luogo così ristretto di tante persone, nonché dalle condizioni di privazione e debolezza in cui si trova quella gente a causa della fame e della carestia. Forse il contagio nasce nel lazzaretto o forse vi viene portato dall'esterno e si propaga con straordinaria rapidità, fatto sta che il numero giornaliero di morti supera ben presto il centinaio; il Tribunale di Provvisione non sembra in grado di prendere provvedimenti e quello di Sanità propone di aprire le porte del lazzaretto e di mandar fuori tutti gli accattoni che non siano manifestamente malati, i quali corrono via con gioia furibonda. Per le strade di Milano torna la solita folla di questuanti, anche se assai meno numerosa che nei mesi passati, mentre gli ammalati più gravi vengono portati nell'ospizio dei poveri di S. Maria della Stella, dove molti di loro muoiono.

H. Motte, Richelieu alla Rochelle
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H. Motte, Richelieu alla Rochelle

Fine della carestia e ripresa della guerra

Fortunatamente nell'estate del 1629 il raccolto di grano è abbondante e questo fa cessare la terribile carestia, consentendo agli accattoni di lasciare Milano per tornare nel contado: il cardinal Borromeo fa consegnare a ogni contadino che si presenti all'arcivescovado una moneta d'argento e una falce per mietere, mentre nelle settimane seguenti scema anche la moria dovuta alle malattie epidemiche, anche se i decessi si prolungano sino all'autunno. A questo punto, però, un nuovo terribile flagello si abbatte sul ducato di Milano, già duramente provato dalla carestia, poiché nei mesi precedenti sono avvenuti alcuni fatti storici molto importanti: anzitutto il cardinal Richelieu ha espugnato la roccaforte della Rochelle e concluso una pace col re d'Inghilterra, proponendo al re di Francia di dare aiuti militari al duca di Nevers; a quest'ultimo l'inviato dell'imperatore Ferdinando II ha nel frattempo intimato di lasciare subito Mantova, cosa che tuttavia il Nevers si è guardato bene dal fare sperando proprio nell'aiuto francese, cosicché il commissario imperiale ha minacciato un intervento armato per cacciarlo. Un esercito francese ha intanto valicato le Alpi e il Richelieu ha concluso un accordo col duca di Savoia, ottenendo che don Gonzalo tolga l'assedio da Casale del Monferrato (il governatore milanese ha accettato di buon grado, tanto più che l'assedio continua ad andare per le lunghe). In quest'occasione, ricorda l'autore, Claudio Achillini scrive il celebre verso Sudate, o fochi, a preparar metalli dedicato al re di Francia Luigi XIII, e un altro con cui lo incita a intraprendere la liberazione della Terrasanta, anche se in realtà l'esercito francese torna subito in patria incurante delle richieste dei Veneziani, ansiosi di entrare in guerra con la Spagna.

Il Ragguaglio di A. Tadino
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Il "Ragguaglio" di A. Tadino

Il passaggio dei lanzichenecchi e la peste

Mentre l'esercito francese si allontana da una parte, dall'altra si avvicina minaccioso quello delle soldatesche imperiali dirette ad assediare Mantova, le quali attraversano il Cantone dei Grigioni e la Valtellina e si apprestano a entrare nel territorio di Milano. Il passaggio dei lanzichenecchi spaventa per le ruberie e i saccheggi, ma anche perché la peste cova tra le file di quelle armate in forma endemica, perciò il Tribunale di Sanità incarica uno dei suoi funzionari, il medico Alessandro Tadino (che sarà poi autore del Ragguaglio sulla peste più volte citato dall'autore) di comunicare il pericolo imminente al governatore don Gonzalo, il quale però non sembra comprendere la minaccia e si limita a rispondere che il passaggio dell'esercito imperiale avviene per ragioni di alta politica, dunque non si può impedire. Il governatore invoca per il pericolo della peste l'aiuto della Provvidenza divina e i due medici che fanno parte della Sanità, il Tadino stesso e Senatore Settala, figlio del celebre "protofisico" Lodovico, cercano di imporre provvedimenti che vietino sotto minaccia di pene severe di acquistare qualunque cosa dai soldati tedeschi, per scongiurare il pericolo del contagio, anche se il presidente del Tribunale non comprende la gravità della situazione e non dà seguito alla richiesta (l'autore sottolinea con amara ironia l'assurdità del suo ragionamento, se tale può essere definito a causa delle drammatiche conseguenze che ha poi sortito).

La partenza del governatore (ed. 1840)
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La partenza del governatore (ed. 1840)

Don Gonzalo lascia Milano

Poco dopo l'episodio citato, del resto, il governatore don Gonzalo lascia Milano essendo stato rimosso dall'incarico da parte del re di Spagna: gli viene rimproverato il cattivo esito della guerra e dell'assedio di Casale, mentre il popolo milanese lo accusa di averlo affamato e neppure comprende le sue enormi responsabilità nell'aver sottovalutato il pericolo della peste. La sua carrozza lascia il palazzo del governo e attraversa la città scortata da alabardieri, con due trombettieri che la precedono a cavallo e un certo seguito di altri nobili, mentre molti ragazzi del popolo raccolti sulla piazza del duomo iniziano a fischiare sonoramente al suo indirizzo. Il corteo imbocca la strada che conduce a Porta Ticinese e ben presto si imbatte in un gran concorso di folla, attirata dallo squillo delle trombe che non cessano di suonare (il governatore non dà alcun ordine in proposito, come poi verrà detto da uno dei due trombettieri a sua discolpa). I popolani si accalcano intorno alla carrozza di don Gonzalo e gridano improperi contro di lui, mentre lanciano verso la carrozza sassi, mattoni e immondizie di ogni sorta, continuando a fare il tiro al bersaglio anche dall'alto delle mura, dopo che il corteo è uscito dalla città. In seguito alla triste partenza di don Gonzalo il suo posto viene preso dal genovese Ambrogio Spinola, all'epoca già famoso per le sue imprese militari nella guerra di Fiandra.

Lanzichenecchi (stampa XVI sec.)
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Lanzichenecchi (stampa XVI sec.)

I lanzichenecchi entrano nel Milanese

Intanto le soldatesche dell'esercito imperiale, al comando del generale italiano Rambaldo di Collalto, nel settembre 1629 penetrano nel Ducato di Milano con l'ordine di raggiungere Mantova: all'epoca le milizie erano quasi sempre composte da mercenari, arruolati da capitani di ventura su commissione di qualche principe o anche per proprio conto, e tali soldati erano attirati dalle paghe e, soprattutto, dalla speranza di ottenere un ingente bottino grazie ai saccheggi cui si abbandonavano senza freni e a cui erano spesso incoraggiati dai loro stessi comandanti, incuranti della disciplina e spesso impossibilitati a mantenerla. Inoltre i principi arruolavano simili soldatesche in gran quantità e spesso non avevano denaro sufficiente per pagarle, quindi le paghe arrivavano in ritardo o in modo discontinuo e ciò favoriva la spogliazione di quei territori in cui gli eserciti di ventura andavano ad alloggiare, fatto deprecabile ma tacitamente accettato da sovrani e comandanti. I soldati mercenari dell'esercito imperiale sono i famigerati lanzichenecchi, che già hanno desolato la Germania durante la guerra dei Trent'anni tuttora in corso, e molti di quelli che calano in Lombardia sono al comando del famoso generale boemo Albrecht von Wallenstein, accompagnato da vari luogotenenti che di lì a quattro anni lo tradiranno e ne causeranno la morte. L'armata è composta di circa ventottomila fanti e settemila cavalieri e scende dalla Valtellina per seguire il corso dell'Adda, trattenendosi circa otto giorni nel Ducato di Milano.

La cittadina di Bellano (ed.1840)
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La cittadina di Bellano (ed.1840)

I tremendi saccheggi dei lanzichenecchi

Molti abitanti dei paesi del Milanese lasciano le loro case e si rifugiano sui monti, spesso portando con sé le bestie, mentre altri restano a custodire le abitazioni e i pochi averi, alcuni nella speranza di unirsi ai saccheggi. Quando una squadra di lanzichenecchi arriva in un paese lo mette a soqquadro e sottopone al saccheggio tutto il territorio circostante, depredando quel che c'è da portar via e distruggendo tutto il resto: il mobilio delle case viene bruciato, le abitazioni diventano stalle e gli abitanti subiscono percosse, quando non sono oggetto di stupri e brutali uccisioni. Gli stratagemmi attuati per nascondere le ricchezze risultano inutili, poiché i soldati sono fin troppo astuti a scovare i nascondigli dentro e fuori le case, arrivando persino a razziare il bestiame sui monti e stanando i ricchi nascosti nelle grotte, i quali sono poi costretti tra minacce e torture a consegnare tutti i loro averi. Una squadraccia si allontana e, poco tempo dopo, se ne sente arrivare un'altra preceduta dal suono di tamburi e trombe, la quale, non trovando gran che da saccheggiare, infierisce distruggendo tutto il resto e incendiando talvolta anche le case. La cosa si ripete per vari giorni (le squadre dei lanzichenecchi sono in tutto venti) e la prima terra ad essere invasa è Colico, seguita poi da Bellano e dalla Valsàssina, finché le soldatesche entrano nel territorio di Lecco.

Temi principali e collegamenti

Il capitolo è interamente occupato da una digressione storica e per la prima volta non compare nessuno dei personaggi principali del romanzo, cosa che avverrà anche nei capp. XXXI-XXXII dedicati alla peste: l'excursus è diviso in due parti, la prima delle quali descrive l'infuriare della carestia nel Milanese dopo il tumulto di S. Martino, mentre la seconda narra le successive vicende della guerra di Mantova e del Monferrato, che porteranno alla calata dei lanzichenecchi in Lombardia e al diffondersi dell'epidemia di peste. Come nei capitoli sul terribile morbo, anche qui le fonti storiche dell'autore sono principalmente l'Historia patria di G. Ripamonti e il Ragguaglio di A. Tadino, nonché molte gride e documenti dell'epoca.

Il racconto della carestia prosegue idealmente quello dei capp. XII-XIII dedicati al tumulto dell'11-12 nov. 1628, illustrando i provvedimenti assunti dal governo di Milano per ribassare il prezzo del pane e tenere così a bada il popolo inferocito (la cosa era già stata anticipata dal mercante all'osteria di Gorgonzola, nel cap. XVI). L'autore condanna con forza una politica così miope, che finirà per esaurire più in fretta le scorte di grano e aggravare la carestia che, infatti, riesploderà poche settimane dopo con inaudita virulenza (sul punto si veda oltre).

Viene introdotto per la prima volta, dopo l'accenno nel cap. XI, il lazzaretto di Milano, in cui le autorità raccolgono gli accattoni che affollano le strade della città e in cui non tarda a diffondersi un'alta mortalità per il propagarsi di malattie contagiose. La descrizione del luogo anticipa quella dei capp. XXXI ss. al tempo della peste, quando il lazzaretto diventerà il ricovero degli ammalati e dove Renzo ritroverà padre Cristoforo e Lucia.

La seconda parte del capitolo è dedicata alla ripresa della guerra di Mantova, conseguente alla presa della rocca della Rochelle ad opera del card. Richelieu e alla discesa in Italia delle truppe francesi, cosa che costringe don Gonzalo a togliere l'assedio a Casale: l'autore sottolinea come le operazioni militari siano dettate dal gioco delle mobili alleanze dei sovrani europei, per cui ad esempio il duca di Savoia non esita a stringere un accordo con la Francia e ad abbandonare l'alleato spagnolo, mentre i Francesi sono poi lesti a tornare in patria dove sono impegnati in questioni più urgenti. Una parentesi riguarda anche la triste partenza da Milano di don Gonzalo, rimosso dalla carica di governatore per gli insuccessi militari e fatto bersaglio dei fischi e delle rimostranze della folla (nel cap. XXXI verrà indicato dai Milanesi quale mandante degli untori durante l'epidemia di peste, per vendicarsi delle offese ricevute).

Manzoni cita il "famigerato" verso di Claudio Achillini che omaggia le imprese militari di Luigi XIII ("Sudate, o fochi, a preparar metalli"), spesso indicato quale esempio del "concettismo" barocco e delle immagini inusitate e di cattivo gusto della poesia del Seicento, come in questo caso quella delle fornaci che "sudano" per forgiare le armi dei francesi. Il verso è tratto da un sonetto scritto nel 1629 per celebrare proprio la presa della Rochelle e la successiva liberazione di Casale.

Il capitolo si chiude con la descrizione della calata in Lombardia dei lanzichenecchi, i soldati mercenari dell'esercito imperiale che si dirigono verso Mantova per assediarla e che durante il loro passaggio si abbandonano a efferati saccheggi: uno dei loro comandanti era quell'Albrecht von Wallenstein già citato nel cap. V durante la discussione tra il conte Attilio e il podestà di Lecco, figura storica che affascinò molto il Manzoni per quella parabola di ascesa e caduta che lo rende simile ad altri suoi personaggi (soprattutto il conte di Carmagnola, protagonista dell'omonima tragedia, ma in parte anche il Napoleone del Cinque Maggio). F. Schiller fece del Wallenstein il protagonista di una trilogia tragica, dedicata complessivamente alla guerra dei Trent'anni.


R. Hubert, La distruzione della Bastiglia
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R. Hubert, La distruzione della Bastiglia

Quando il potere pubblico asseconda la volontà popolare

Manzoni disapprova fortemente le sommosse popolari come mezzo per modificare una situazione esistente e ciò non solo in quanto la folla, abbandonandosi ai propri istinti e alla ferocia, spesso provoca violenze e danni insensati (come si è visto nella cronaca del tumulto di S. Martino, nei capp. XIII-XIV), ma anche perché spesso la "gran massa popolare", ignara di conoscenze giuridiche ed economiche, si serve dei disordini per forzare la mano al potere legittimo e spingerlo a provvedimenti forieri di conseguenze ancora peggiori, fatto di cui la rivolta di Milano costituisce un esempio significativo. In seguito ai fatti di S. Martino, infatti, il governo milanese ribassa nuovamente il prezzo del pane per placare la folla in tumulto e prevenire ulteriori disordini, provocando così una nuova corsa all'acquisto da parte dei cittadini ed un più rapido esaurimento delle scorte di grano già scarse, con l'inasprimento della carestia e delle sue drammatiche conseguenze sulla popolazione. Lo scrittore sottolinea, come già nel caso del calmiere imposto da Ferrer, l'assoluta miopia delle autorità preposte al governo di Milano, che per evitare un pericolo imminente accentuano quello assai più grave della penuria di grano e tutto ciò solo per assecondare la cieca volontà della folla, che pretende il pane a prezzo ribassato quando ciò è contrario alle più elementari regole dell'economia; l'assurdo è che il governo emana una serie di gride per costringere i fornai a vendere il pane a prezzo ridotto minacciando le solite pene severissime ai trasgressori, salvo poi arrendersi all'evidenza che il grano è finito e che la fame infuria orribilmente nelle strade di Milano, anche se nessun altro provvedimento viene assunto dalle autorità per far fronte alla situazione (non è chiaro neppure a quando risalga l'ultima grida in materia di approvvigionamenti). "La moltitudine aveva voluto far nascere l’abbondanza col saccheggio e con l’incendio", mentre "il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda": la frase sottolinea con amara ironia la disapprovazione di Manzoni per l'insensata condotta del governo milanese del 1628, anche se la polemica è più radicale e si rivolge contro tutte le istituzioni che si lasciano guidare dal popolo tumultuante nell'azione legislativa, cosa di cui si sono avuti esempi ben più drammatici nel secolo dei Lumi pure lontano dal disordine e dall'ignoranza del Seicento. Manzoni accenna brevemente in questo capitolo agli eccessi della Rivoluzione francese e non solo in riferimento alle violenze in quanto tali, ma specie perché nel 1789 il popolo parigino forzò la mano all'Assemblea Nazionale e la costrinse ad atti tanto scellerati quanto contrari al diritto e alla legge, come lo scrittore sottolinea in maniera più ampia nel Saggio incompiuto sulla Rivoluzione francese: l'esempio più evidente è certo l'occupazione della Bastiglia da parte degli insorti col suo strascico di insensate violenze (il governatore De Launay venne trucidato e la sua testa mozzata fu infilzata in cima a una picca, cap. VII del Saggio), ma le premesse di quelle atrocità si ebbero per lo scrittore già nei primi giorni del luglio 1789, quando la folla di Parigi in tumulto impose all'Assemblea la propria volontà in ragione della forza bruta, con la minaccia di più severi disordini. Nel cap. V del saggio Manzoni racconta di come il popolo parigino, eccitato da caporioni faziosi, avesse liberato alcuni soldati imprigionati per motivi disciplinari (si erano abbandonati a baldorie eccessive in strada) e avesse poi preteso dall'Assemblea la ratifica di quell'atto illegale minacciando ulteriori rappresaglie, fatto di fronte al quale i deputati non poterono fare altro che assecondare la richiesta priva fondamenti giuridici. Quel fatto insignificante fu, per Manzoni, l'inizio di una serie di illegalità che sfociarono poi nei fatti del 14 luglio e a cui diede inizio l'autorità costituita, lasciandosi forzare la mano dal popolo nella speranza che ciò scongiurasse conseguenze peggiori: "il darla vinta ai tumultuanti è un mezzo infallibile per far cessare un tumulto... ma è forse questo che s'intende per ristabilimento dell'ordine?" (Saggio, cap. V). Qualcosa di simile avvenne in fondo anche a Milano nel nov.-dic. 1628, con l'imposizione del calmiere che costituì il primo di una lunga serie di errori del governo e di provvedimenti irrazionali, "ognuno... conseguenza inevitabile dell'antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale"; anche in quel caso, per assecondare la folla in tumulto, si produssero conseguenze molto peggiori del male e questo è un rischio sempre presente quando il governo agisce sull'impulso della volontà popolare, che per Manzoni è mossa dall'istinto bestiale e non dalla razionalità, dunque dev'essere guidata dall'alto e, se necessario, repressa con l'uso della forza. È la consueta prospettiva conservatrice e paternalista dello scrittore che nutre una assoluta sfiducia nella capacità della "massa" di porsi come soggetto politico autonomo, giudicandola incapace di un'azione riformatrice della società o dell'economia: la folla agisce perché spinta dalla fame (come nel tumulto di Milano) o dalla sete di vendetta contro un potere tirannico (come nella Rivoluzione francese) e in entrambi i casi l'autorità sbaglia ad accedere alle sue richieste, a non opporsi con un'azione repressiva nella speranza di evitare guai peggiori; la posizione di Manzoni risente certo del suo essere aristocratico e della viva impressione suscitata in lui dai moti di piazza a Milano durante l'età napoleonica, tuttavia è innegabile che tale punto di vista sia ancora in parte attuale e susciti una certa riflessione sul rapporto ancor oggi esistente tra potere legislativo e opinione pubblica (si pensi, per fare un esempio, a certe leggi approvate "a furor di popolo" sulla spinta emotiva di alcuni fatti eclatanti, salvo poi rivelarsi provvedimenti sbagliati o superficiali e affrettati). Da ricordare, infine, che Manzoni tornerà in parte sull'argomento anche nei capp. del romanzo dedicati alla peste, con la vicenda assurda e tragica degli untori che costituisce essa pure un triste esempio di come l'autorità, pur di blandire il popolo imbestialito e in cerca di un capro espiatorio, non esiti a condannare degli innocenti contro cui non c'era alcuna prova reale (sul punto si veda l'approfondimento del cap. XXXII e la Storia della colonna infame).

Capitolo XXVIII

Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l’abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo. Pane in quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell’annate migliori; le farine a proporzione. Coloro che, in que’ due giorni, s’erano addati [1] a urlare o a far anche qualcosa di più, avevano ora (meno alcuni pochi stati presi) di che lodarsi: e non crediate che se ne stessero [2], appena cessato quel primo spavento delle catture. Sulle piazze, sulle cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un congratularsi e un vantarsi tra’ denti d’aver trovata la maniera di far rinviliare [3] il pane. In mezzo però alla festa e alla baldanza, c’era (e come non ci sarebbe stata?) un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare. Assediavano i fornai e i farinaioli [4], come già avevan fatto in quell’altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d’Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrino da parte, l’investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie [5]. Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sé, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea. Ed ecco che, il 15 di novembre, Antonio Ferrer, De orden de Su Excelencia, pubblicò una grida, con la quale, a chiunque avesse granaglie o farine in casa, veniva proibito di comprarne né punto né poco, e ad ognuno di comprar pane, per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali, all’arbitrio di Sua Eccellenza; intimazione a chi toccava per ufizio, e a ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine a’ giudici, di far ricerche nelle case che potessero venir loro indicate; insieme però, nuovo comando a’ fornai di tener le botteghe ben fornite di pane, sotto pena in caso di mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all’arbitrio di S. E. Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la Gran Bretagna [6].
Sia com’esser si voglia, ordinando ai fornai di far tanto pane, bisognava anche fare in modo che la materia del pane non mancasse loro. S’era immaginato (come sempre in tempo di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane de’ prodotti che d’ordinario si consumano sott’altra forma), s’era, dico, immaginato di far entrare il riso nel composto del pane detto di mistura. Il 23 di novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e de’ dodici di provvisione, la metà del riso vestito [7] (risone lo dicevano qui, e lo dicon tuttora) che ognuno possegga; pena a chiunque ne disponga senza il permesso di que’ signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi per moggio [8]. È, come ognun vede, la più onesta.
Ma questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato da quello del pane. Il carico di supplire all’enorme differenza era stato imposto alla città; ma il Consiglio de’ decurioni, che l’aveva assunto per essa, deliberò, lo stesso giorno 23 di novembre, di rappresentare al governatore l’impossibilità di sostenerlo più a lungo. E il governatore, con grida del 7 di dicembre, fissò il prezzo del riso suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne chiedesse di più, come a chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa altrettanto valore, et maggior pena pecuniaria et ancora corporale sino alla galera, all’arbitrio di S. E., secondo la qualità de’ casi et delle persone.
Al riso brillato era già stato fissato il prezzo prima della sommossa; come probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione celeberrima negli annali moderni, il maximum del grano e dell’altre granaglie più ordinarie sarà stato fissato con altre gride, che non c’è avvenuto di vedere.
Mantenuto così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva di conseguenza che dalla campagna accorresse gente a processione a comprarne. Don Gonzalo, per riparare a questo, come dice lui, inconveniente, proibì, con un’altra grida del 15 di dicembre, di portar fuori della città pane, per più del valore di venti soldi; pena la perdita del pane medesimo, e venticinque scudi, et in caso di inhabilità’ di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora, secondo il solito, all’arbitrio di S. E. Il 22 dello stesso mese (e non si vede perché così tardi), pubblicò un ordine somigliante per le farine e per i grani.
La moltitudine aveva voluto far nascere l’abbondanza col saccheggio e con l’incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti. È poi facile anche vedere, e non inutile l’osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell’antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all’equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell’angustie e ne’ patimenti della carestia, essa lo desideri, l’implori e, se può, l’imponga. Di mano in mano poi che le conseguenze si fanno sentire, conviene che coloro a cui tocca, vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca agli uomini di far quello a che eran portati dall’antecedente. Ci si permetta d’osservar qui di passaggio una combinazione singolare. In un paese e in un’epoca vicina, nell’epoca la più clamorosa e la più notabile della storia moderna [9], si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo ordine) ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge.
Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de’ conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione.
Del resto, le relazioni storiche di que’ tempi son fatte così a caso, che non ci si trova neppur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta. Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo a credere che sia stata abolita poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di quell’esecuzione. E in quanto alle gride, dopo l’ultima che abbiam citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia di grasce [10]; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche, o sia finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato dall’inefficacia di que’ suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso. Troviamo bensì nelle relazioni di più d’uno storico (inclinati, com’erano, più a descriver grand’avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della città principalmente, nell’inverno avanzato e nella primavera, quando la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il bisogno, non distrutta, anzi accresciuta da’ rimedi che ne sospesero temporariamente gli effetti, e neppure da un’introduzione sufficiente di granaglie estere, alla quale ostavano l’insufficienza de’ mezzi pubblici e privati, la penuria de’ paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i vincoli del commercio [11], e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia, o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta la sua forza. Ed ecco la copia di quel ritratto doloroso.
A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto.
C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de’ bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati [12], si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire.
Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini [13] de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que’ due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza. Si potevan distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all’andare incerto e all’aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d’attirare a sé gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co’ sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne’ volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti; e diversi anche nell’aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e l’insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore abbattuto, l’aspetto d’una natura più presto vinta, d’un languore e d’uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell’età più deboli.
Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po’ di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato.
Accanto a qualcheduno di que’ covili, si vedeva pure chinato qualche passeggiero o vicino, attirato da una compassion subitanea. In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo. Aveva scelto sei preti ne’ quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnata una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti. Ogni mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti, s’avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano a ciascheduno aiuto secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione. Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati [14], vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose [15]. Insieme, distribuivano vesti alle nudità più sconce e più dolorose.
Né qui finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che, almeno dov’essa poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non momentaneo. Ai poverini a cui quel primo ristoro avesse rese forze bastanti per reggersi e per camminare, davano un po’ di danaro, affinché il bisogno rinascente e la mancanza d’altro soccorso non li rimettesse ben presto nello stato di prima; agli altri cercavano ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vicine. In quelle de’ benestanti, erano per lo più ricevuti per carità, e come raccomandati dal cardinale; in altre, dove alla buona volontà mancassero i mezzi, chiedevan que’ preti che il poverino fosse ricevuto a dozzina [16], fissavano il prezzo, e ne sborsavan subito una parte a conto. Davano poi, di questi ricoverati, la nota ai parrochi, acciocché li visitassero; e tornavano essi medesimi a visitarli.
Non c’è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di patimenti, né l’aveva aspettata per commoversi. Quella carità ardente e versatile doveva tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava il bisogno. Infatti, radunando tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora d’un’importanza troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari, per impiegarli tutti in soccorso degli affamati. Aveva fatte gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n’eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del sale, - con cui, - dice, raccontando la cosa, il Ripamonti (Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, pag. 386.) - l’erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in cibo -. Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere, dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere; nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo, il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo spesso occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due mila scodelle di minestra di riso (Ragguaglio dell’origine et giornali sucessi della gran peste contagiosa, venefica et malefica, seguita nella città di Milano etc., Milano, 1648, pag. 10.).
Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi, quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi (giacché Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui); questi, insieme con le liberalità d’altre mani private, se non così feconde, pur numerose; insieme con le sovvenzioni che il Consiglio de’ decurioni aveva decretate, dando al tribunal di provvisione l’incombenza di distribuirle; erano ancor poca cosa in paragone del bisogno. Mentre ad alcuni montanari vicini a morir di fame, veniva, per la carità del cardinale, prolungata la vita, altri arrivavano a quell’estremo; i primi, finito quel misurato soccorso, ci ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come meno angustiate, da una carità costretta a scegliere, l’angustie divenivan mortali; per tutto si periva, da ogni parte s’accorreva alla città. Qui, due migliaia, mettiamo, d’affamati più robusti ed esperti a superar la concorrenza e a farsi largo, avevano acquistata una minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati, quando, tra i rimasti indietro, c’erano spesso le mogli, i figli, i padri loro? E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più abbandonati e ridotti all’estremo venivan levati di terra, rianimati, ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent’altre parti, altri cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.
Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzìo confuso di voci supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti lamenti scoppiati all’improvviso, da urli, da accenti profondi d’invocazione, che terminavano in istrida acute.
È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno. Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c’era un buon numero d’uomini educati a tutt’altro che a tollerare; c’erano a centinaia, di que’ medesimi che, il giorno di san Martino, s’erano tanto fatti sentire. Né si può pensare che l’esempio de’ quattro disgraziati che n’avevan portata la pena per tutti, fosse quello che ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la memoria de’ supplizi sugli animi d’una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pativa? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.
Il vòto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da’ paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da’ nuovi concorrenti d’accatto, uscivano a un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere S’incontravano nell’opposto viaggio questi e que’ pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d’orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. “Vidi io, - scrive il Ripamonti, - nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna... Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso... Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno”.
Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria, spettacolo ordinario de’ tempi ordinari, era allora affatto cessato. I cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva, era appena un apparenza di parca mediocrità. Si vedevano i nobili camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni, perché le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione, o che si vergognassero d’insultare alla pubblica calamità. Que’ prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che parevano offrire e chieder pace. Altri che, anche nella prosperità, erano stati di pensieri più umani, e di portamenti più modesti, parevano anch’essi confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista continua d’una miseria che sorpassava, non solo la possibilità del soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione. Chi aveva il modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta tra fame e fame, tra urgenze e urgenze. E appena si vedeva una mano pietosa avvicinarsi alla mano d’un infelice, nasceva all’intorno una gara d’altri infelici; coloro a cui rimaneva più vigore, si facevano avanti a chieder con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli, alzavano le mani scarne; le madri alzavano e facevan veder da lontano i bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce cenciose, e ripiegati per languore nelle loro mani.
Così passò l’inverno e la primavera: e già da qualche tempo il tribunale della sanità andava rappresentando a quello della provvisione il pericolo del contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria ammontata [17] in ogni parte di essa; e proponeva che gli accattoni venissero raccolti in diversi ospizi. Mentre si discute questa proposta, mentre s’approva, mentre si pensa ai mezzi, ai modi, ai luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade ogni giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l’altro ammasso di miserie. Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.
Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, né di vista né per descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d’una strada di circonvallazione, e d’una gora [18] che gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla parte esterna, son divisi in piccole stanze d’un piano solo; di dentro gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne.
Le stanzine eran dugent’ottantotto, o giu di lì: a’ nostri giorni, una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante. Al tempo della nostra storia, non c’eran che due entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città, l’altra di rimpetto, nell’opposto. Nel centro dello spazio interno, c’era, e c’è tutt’ora, una piccola chiesa ottangolare.
La prima destinazione di tutto l’edifizio, cominciato nell’anno 1489, co’ danari d’un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico e d’altri testatori [19] e donatori, fu, come l’accenna il nome stesso, di ricoverarvi, all’occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già molto prima di quell’epoca, era solita, e lo fu per molto tempo dopo, a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d’Europa, prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo. Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito delle mercanzie soggette a contumacia [20].
Ora, per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto [21]. Si fece stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di viveri, della qualità e nella quantità che si poté; e s’invitarono, con pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì.
Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila. Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a goder l’elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura, o quella diffidenza de’ poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata all’ignoranza comune di chi la sente e di chi l’ispira, al numero de’ poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto dell’invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade. Visto ciò, si credé bene di passar dall’invito alla forza. Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de’ quali fu assegnato a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito. E quantunque, com’era stata congettura, anzi intento espresso della Provvisione, un certo numero d’accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno; pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de’ ricoverati, tra ospiti e prigionieri, s’accostò a dieci mila.
Le donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in quartieri separati, benché le memorie del tempo non ne dican nulla. Regole poi e provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno certamente mancati; ma si figuri ognuno qual ordine potesse essere stabilito e mantenuto, in que’ tempi specialmente e in quelle circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove coi volontari si trovavano i forzati; con quelli per cui l’accatto era una necessità, un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con molti cresciuti nell’onesta attività de’ campi e dell’officine, molti altri educati nelle piazze, nelle taverne, ne’ palazzi de’ prepotenti, all’ozio, alla truffa, allo scherno, alla violenza.
Come stessero poi tutti insieme d’alloggio e di vitto, si potrebbe tristamente congetturarlo, quando non n’avessimo notizie positive; ma le abbiamo. Dormivano ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perché, s’era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S’era ugualmente ordinato che il pane fosse di buona qualità: giacché, quale amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine? Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che non fosse uno di que’ lamenti in aria. D’acqua perfino c’era scarsità; d’acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa [22], e divenuta poi quale poteva renderla l’uso e la vicinanza d’una tanta e tal moltitudine.
A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi ammalati o ammalazzati, s’aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Ai mali s’aggiunga il sentimento de’ mali, la noia e la smania della prigionia, la rimembranza dell’antiche abitudini, il dolore di cari perduti, la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo vicendevole, tant’altre passioni d’abbattimento o di rabbia, portate o nate là dentro; l’apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte resa frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente cagione. E non farà stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti, nome di pestilenza [23]: sia che la riunione e l’aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l’attività d’un’influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio, il quale ne’ corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva qualità degli alimenti, dall’intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall’avvilimento trovi la tempera [24], per dir così, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar là queste parole, dietro l’ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo, con molte ragioni e con molta riserva, da uno [25], diligente quanto ingegnoso) (Del morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera del dott. F. Enrico Acerbi, Cap. III, § 1 e 2.): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel lazzeretto medesimo, come, da un’oscura e inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d’allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e terribile rapidità. Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero giornaliero de’ morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il centinaio.
Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento, rammarichìo, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento, incertezza. Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò altro che di disfare ciò che s’era fatto con tanto apparato, con tanta spesa, con tante vessazioni. S’aprì il lazzeretto, si licenziaron tutti i poveri non ammalati che ci rimanevano, e che scapparon fuori con una gioia furibonda. La città tornò a risonare dell’antico lamento, ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e più compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di tanto scemata. Gl’infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella, allora ospizio di poveri; dove la più parte perirono.
Intanto però cominciavano que’ benedetti campi a imbiondire. Gli accattoni venuti dal contado se n’andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che si presentasse all’arcivescovado, fece dare un giulio [26], e una falce da mietere.
Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell’autunno. Era sul finire, quand’ecco un nuovo flagello.
Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo. Il cardinal di Richelieu, presa, come s’è detto, la Roccella [27], abborracciata alla meglio una pace col re d’Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme determinato il re medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si facevan gli apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando, o questo manderebbe un esercito ad occuparli. Il duca che, in più disperate circostanze, s’era schermito d’accettare una condizione così dura e così sospetta, incoraggito ora dal vicino soccorso di Francia, tanto più se ne schermiva; però con termini in cui il no fosse rigirato e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione, anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario se n’era andato, protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il cardinal di Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d’un esercito: aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s’era trattato; non s’era concluso; dopo uno scontro, col vantaggio de’ Francesi, s’era trattato di nuovo, e concluso un accordo, nel quale il duca, tra l’altre cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l’assedio da Casale; obbligandosi, se questo ricusasse, a unirsi co’ Francesi, per invadere il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli anche d’uscirne con poco, aveva levato l’assedio da Casale, dov’era subito entrato un corpo di Francesi, a rinforzar la guarnigione.
Fu in questa occasione che l’Achillini [28] scrisse al re Luigi quel suo famoso sonetto:

Sudate, o fochi, a preparar metalli;

e un altro, con cui l’esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra santa. Ma è un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima. Il cardinal di Richelieu aveva in vece stabilito di ritornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo, inviato de’ Veneziani, poté bene addurre ragioni per combattere quella risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come ai versi dell’Achillini, se ne ritornarono col grosso dell’esercito, lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e per caparra del trattato.
Mentre quell’esercito se n’andava da una parte, quello di Ferdinando s’avvicinava dall’altra; aveva invaso il paese de’ Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell’esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c’era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi [29], parlando di quella che, un secolo avanti, avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de’ conservatori della sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in quel suo ragguaglio già citato (Pag. 16), di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all’assedio di Mantova, come s’era sparsa la voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania d’acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non poté non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l’atto di lui più degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d’interesse e di riputazione, per i quali s’era mosso quell’esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza.
Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico [30]) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da’ soldati ch’eran per passare; ma non fu possibile far intendere la necessità d’un tal ordine al presidente, “uomo”, dice il Tadino, “di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio, di questa gente, et loro robbe”. Citiamo questo tratto per uno de’ singolari di quel tempo: ché di certo, da che ci son tribunali di sanità, non accadde mai a un altro presidente d’un tal corpo, di fare un ragionamento simile; se ragionamento si può chiamare.
In quanto a don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n’andò da Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo. (Quello che aveva fatto per la peste, o non si sapeva, o certo nessuno se n’inquietava, come vedremo più avanti, fuorché il tribunale della sanità, e i due medici specialmente). All’uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, in mezzo a una guardia d’alabardieri, con due trombetti a cavallo davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu accolto con gran fischiate da ragazzi ch’eran radunati sulla piazza del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa. Entrata la comitiva nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire, cominciò a trovarsi in mezzo a una folla di gente che, parte era lì ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte, fino alla porta. E nel processo che si fece poi su quel tumulto, uno di costoro, ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo crescere, risponde: - caro signore, questa è la nostra professione; et se S. E. non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva comandarne che tacessimo -. Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la moltitudine, o perché fosse in effetto un po’ sbalordito, non dava nessun ordine. La moltitudine, che le guardie avevan tentato in vano di respingere, precedeva, circondava, seguiva le carrozze, gridando: - la va via la carestia, va via il sangue de’ poveri, - e peggio. Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d’ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un’ultima scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono.
In luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola, il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella celebrità militare che ancor gli rimane.
Intanto l’esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto [31], altro condottiere italiano, di minore, ma non d’ultima fama, aveva ricevuto l’ordine definitivo di portarsi all’impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di Milano.
La milizia, a que’ tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale non ce n’era; né avrebbe potuto accordarsi così facilmente con l’autorità in parte indipendente de’ vari condottieri. Questi poi in particolare, né erano molto raffinatori [32] in fatto di disciplina, né, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; ché soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d’abolire il saccheggio; o per lo meno, l’avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere. Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per assicurar l’imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de’ paesi a cui la toccava, ne divenivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre, poco meno del nome di Wallenstein [33], quella sua sentenza: esser più facile mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila. E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre, e per sé e per i suoi effetti, che ricevette poi il nome da’ trent’anni della sua durata: e allora ne correva l’undecimo. C’era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato sotto di lui, e ci si trovava più d’uno di quelli che, quattr’anni dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.
Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall’incendio, o per tener d’occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perché non avevan nulla da perdere, o anche facevan conto d’acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto.
Finalmente se n’andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de’ tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d’una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un’altra squadra. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci delle stanze dove non c’era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s’intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l’esercito.
Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.


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Note
Si erano adoperati.
Che stessero tranquilli.
Calare di prezzo.
Fabbricanti di farine.
Sfruttavano casse, piccole botti e pentole per portare via la farina e il pane comprati.
Ancora nel XIX secolo i condannati alla "galera" venivano imbarcati sulle navi da guerra come rematori, per cui l'autore osserva ironicamente che il Ducato di Milano non poteva certo avere tanti "galeotti" quanti ne aveva l'Impero Britannico (specie perché in Lombardia non c'è il mare).
Il riso non brillato, cioè ancora ricoperto dal guscio.
Misura di capacità per i cereali, corrispondente a circa un ettolitro e mezzo.
L'autore si riferisce alla Francia, durante la Rivoluzione del 1789.
Vettovaglie (è voce di derivazione medievale).
I dazi doganali.
Inebetiti.
Le cicatrici.
Brodini e bevande alcooliche distillate.
Aceti medicamentosi, che venivano fatti odorare per far riprendere i sensi (spiritose da "spirito", alcool).
A pensione.
Ammassata.
Canale che raccoglie le acque.
Persone che, facendo testamento, hanno destinato danari o beni alla città.
Quarantena (periodo in cui venivano trattenute le merci che si temeva fossero infette).
Per svuotarlo non si applicarono in modo rigoroso le leggi sanitarie, ma si fecero in fretta e furia le disinfezioni (purghe) e i controlli prescritti, quindi le merci vennero portate fuori tutte insieme.
Fangosa.
Male contagioso, influenza.
Il terreno, l'ambiente adatto per proliferare.
Il dottor Francesco Enrico Acerbi (1785-1827) era medico di casa Manzoni e ipotizzò in alcuni studi come la diffusione delle malattie contagiose sia dovuta all'azione di agenti patogeni di origine animale, anticipando le teorie di Koch e Pasteur.
Moneta d'argento del valore di circa cinquantasei centesimi, con impressa l'effigie di papa Giulio II (da cui il nome).
La presa della Rochelle avvenne il 25 ott. 1628 e in seguito il Richelieu concluse una pace col re Carlo I Stuart (1625-1649): l'esercito francese guidato da re Luigi XIII in persona scese in Italia passando dal Monginevro, forte di circa 15.000 uomini con cui fornire aiuti a Casale assediata. L'accordo stretto tra i Francesi e il duca Carlo Emanuele di Savoia è la pace di Susa.
Claudio Achillini (1574-1640) fu poeta marinista del Seicento, noto per i versi vuoti e ampollosi con cui faceva sfoggio di abilità retorica e immagini sorprendenti. La quartina da cui è tratto il verso citato suonava così: "Sudate, o fochi, a preparar metalli, / e voi, ferri vitali, itene pronti, / ite di Paro a sviscerare i monti, / per innalzar colossi al re de' Galli" (Sudate, o fornaci, per forgiare metalli da cui ricavare le spade, e voi, scalpelli, andate a ricavare marmo dall'isola di Paro, con cui erigere statue al re di Francia Luigi XIII).
Benedetto Varchi (1503-1565) fu autore di una Storia di Firenze in cui si legge (XII, 51) l'espressione "qualche sprazzo", riferita alla peste del 1531 portata nella città toscana dalle soldatesche germaniche.
Lodovico Settala fu insigne medico e studioso di medicina, direttamente impegnato nel contrastare l'epidemia di peste del 1630: l'autore lo cita nel cap. XXXI.
Condottiero italiano vissuto tra 1575 e 1630.
Non andavano troppo per il sottile.
Albrecht von Wallenstein (1583-1634) fu un celebre condottiero boemo dell'esercito imperiale, distintosi in varie operazioni militari e insignito del titolo di "generalissimo dell'Oceano e del Mar Baltico" dall'imperatore Ferdinando II. Lo stesso sovrano lo fece assassinare per sospetto di tradimento, probabilmente in seguito a una congiura in cui ebbe un ruolo anche il generale italiano Ottavio Piccolomini, che prese parte all'assedio di Mantova.

Fonte: https://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxviii.html

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