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Il furto di gioielli al Grand Metropolitan

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Hercules Poirot
 · 16 Jun 2018

– Poirot – dissi – io credo che un cambiamento d’aria le farebbe bene.
– Lo pensa davvero, mon ami?
– Ne sono sicuro.
– Eh... eh? – disse il mio amico sorridendo. – Allora è tutto predisposto, vero?
– Verrà?
– Dove vuole portarmi?
– A Brighton. Un mio amico della City mi ha dato un ottimo consiglio e... be‘, ho denaro da spendere. Credo che un fine settimana al Grand Metropolitan farebbe bene a tutti e due.
-Grazie, accetto con riconoscenza. È davvero buono a pensare a un vecchio come me. E il buon cuore vale quanto tutte le mie piccole cellule grigie. Sì, sì, a volte rischio di dimenticarmene. L’implicazione sottintesa in quella frase non mi piaceva molto. Ho l’impressione che a volte Poirot sottovaluti un po‘ la mia intelligenza. Ma la sua gioia era così evidente che misi da parte l’irritazione.
– Bene, siamo a posto – mi affrettai a rispondergli.
Sabato sera cenammo al Grand Metropolitan, in mezzo a una quantità di gente allegra. Tutto il mondo sembrava essersi dato appuntamento a Brighton. Gli abiti erano meravigliosi e i gioielli, a volte portati più per esibirli che con eleganza, erano stupendi.
– È uno spettacolo! – mormorò Poirot. – Qui i nuovi ricchi sono di casa, vero Hastings?
– Così si dice – risposi io. – Ma speriamo che non tutti siano così. Poirot si guardò attorno con aria placida. – Vedendo tutti questi gioielli rimpiango di non aver dedicato il mio cervello al crimine, invece che all’investigazione. Che magnifica occasione per un ladro in gamba! Guardi quella donna robusta accanto al pilastro; è praticamente coperta di gioielli.
Seguii il suo sguardo.
– Ma è la signora Opalsen! – esclamai.
– La conosce?
– Sì, anche se non molto bene. Suo marito è un ricco agente di Borsa che di recente ha fatto un sacco di soldi con il petrolio.
Dopo cena ci imbattemmo nei signori Opalsen e li presentai a Poirot. Chiacchierammo per qualche minuto e finimmo per prendere il caffè insieme.
Poirot ammirò alcune delle gemme più costose che la signora esibiva sul vasto petto e lei si illuminò tutta.
– Per me è una vera passione, monsieur Poirot, io adoro i gioielli. Ed conosce questa mia debolezza e ogni volta che gli affari gli vanno bene me ne regala uno. Le interessano le pietre preziose?
– Me ne sono occupato di tanto in tanto, madame. La mia professione mi ha messo a contatto con alcuni dei più famosi gioielli del mondo.
Raccontò, senza far nomi per discrezione, la storia di certi gioielli appartenuti a una casa regnante, mentre la signora Opalsen lo ascoltava con il fiato sospeso.
– Ecco! – esclamò quando Poirot tacque – sembra proprio un romanzo! Sa, io ho delle perle che hanno una storia. Sono considerate tra le più belle del mondo: perfettamente uguali e di un colore meraviglioso. Devo proprio andare di sopra a prenderle!
– Oh! madame – protestò Poirot – lei è troppo amabile. La prego, non si disturbi!
– Ma no, voglio proprio mostrargliele!
La corpulenta signora attraversò l’atrio a passo svelto, diretta verso l’ascensore. Il marito, che stava chiacchierando con me, guardò Poirot con espressione incuriosita.
– Oh, le perle! – disse con un sorriso soddisfatto. – Vale proprio la pena di vederle. E costano un bel po‘, tra l’altro! Però è un buon investimento; potrei ricavarne quel che ho pagato quando voglio, e forse anche di più. E può darsi che ci sia costretto, se le cose continuano ad andare come stanno andando. Nella City il denaro scarseggia. Queste maledette tasse!
Continuò a chiacchierare, lanciandosi in spiegazioni tecniche che non ero in grado di capire.
Fu interrotto da un giovane cameriere che si avvicinò e gli mormorò qualcosa all’orecchio.
– Eh... come? Vengo subito. Non si è sentita male, vero? Scusatemi, signori.
Si allontanò bruscamente. Poirot accese una delle sue piccole sigarette russe; poi, con cura meticolosa, sistemò le tazze vuote di caffè in una fila ordinata e guardò raggiante il risultato.
Passarono diversi minuti ma gli Opalsen non erano ancora tornati. – Strano – osservai dopo un po‘. – Mi chiedo quando torneranno. Poirot osservò le spirali di fumo che salivano, poi disse in tono pensoso: – Non torneranno.
– Perché?
– Perché, amico mio, è successo qualcosa.
– Che genere di cosa? Come fa a saperlo? – chiesi incuriosito. Poirot sorrise. – Qualche momento fa il direttore è uscito dal proprio ufficio ed è corso di sopra. Sembrava molto agitato. Il giovane cameriere sta chiacchierando animatamente con uno dei lift. Il campanello dell’ascensore è squillato tre volte, ma lui non ci ha fatto caso. Persino i camerieri sono distratti, e per distrarre un cameriere... – Poirot scosse il capo con aria decisa. – Deve essere successo qualcosa di veramente importante. Ah, proprio come pensavo! Ecco la polizia!
Nell’atrio dell’albergo erano appena entrati due uomini, uno in divisa e l’altro in borghese. Si rivolsero a un cameriere e furono subito accompagnati di sopra. Qualche minuto dopo il giovane cameriere ridiscese e si avvicinò al tavolo dove eravamo seduti. – Il signor Opalsen chiede se volete salire.
Poirot scattò agilmente in piedi. Si sarebbe detto che se lo aspettasse, e io lo seguii senza esitazioni.
L’appartamento degli Opalsen era al primo piano. Dopo aver bussato alla porta il cameriere si ritirò e ci fu detto di entrare.
Ci trovammo davanti a una strana scena. In camera da letto c’era la signora Opalsen che, accasciata su una poltrona, piangeva disperata. Era uno spettacolo straordinario, perché le lacrime tracciavano veri e propri solchi nello spesso strato di cipria che le ricopriva il viso.
Il signor Opalsen camminava su e giù, furibondo.
I due funzionari di polizia erano in piedi al centro della stanza, e uno teneva in mano un blocco di appunti.
Accanto al camino, spaventata da morire, c’era una cameriera dell’albergo e, all’altro capo della stanza, la cameriera personale della signora Opalsen (una francese) piangeva e si torceva le mani con una disperazione pari a quella della sua padrona.
Appena Poirot, calmo e sorridente, apparve in mezzo a quel pandemonio, la signora Opalsen balzò su dalla poltrona, con una energia sorprendente per una persona della sua mole, e gli si avvicinò.
– Ed può dire quello che vuole, ma io credo nel destino, ci credo davvero. Era destino che stasera la incontrassi, signor Poirot. Ho la sensazione che, se lei non riuscirà a recuperare le mie perle, non ci riuscirà nessuno.
– La prego, madame, si calmi. – Poirot le prese la mano con fare consolatorio. – Si rassicuri, andrà tutto bene, Hercule Poirot la aiuterà.
Il signor Opalsen si rivolse all’ispettore di polizia. – Non ci sono obiezioni al fatto che... io... abbia chiamato questo signore, vero? – Nessuna – rispose l’altro, educatamente ma con assoluta indifferenza. – Ora che sua moglie si sente meglio, forse potrà raccontarci come sono andate esattamente le cose.
La signora Opalsen guardò Poirot con espressione impotente e lui la riaccompagnò alla poltrona.
– Si sieda, signora, e ci racconti con calma tutta la storia.
La signora Opalsen si asciugò gli occhi con gesto deciso e cominciò a parlare. – Dopo cena sono salita in camera per prendere le mie perle, perché volevo mostrarle al signor Poirot. La cameriera e Célestine erano tutte e due nella stanza, come al solito...
– Chiedo scusa, madame, ma che cosa intende con “come al solito”?
La signora Opalsen glielo spiegò. – Ho dato ordine che nessuno entri in questa stanza, a meno che non ci sia anche Célestine, la nostra cameriera. Al mattino la cameriera dell’albergo fa le pulizie e torna nel pomeriggio per preparare i letti, ma sempre in presenza di Célestine; sono le uniche occasioni in cui mette piede qui dentro. Come stavo dicendo – proseguì la signora Opalsen – sono salita, mi sono avvicinata a quel cassetto – indicò un cassetto della toilette, in basso a destra – ho preso il mio portagioie e l’ho aperto. Sembrava tutto in ordine, ma le perle non c’erano!
L’ispettore prendeva freneticamente appunti.
– Quando le ha viste per l’ultima volta? – chiese.
– Quando sono scesa a cena erano là.
– Ne è sicura?
– Sicurissima. Ero incerta se metterle o no. Ma alla fine ho deciso per gli smeraldi e le ho riposte di nuovo nel portagioie.
– Chi ha chiuso a chiave il portagioie?
– Io. Tengo la chiave infilata in una catenina che porto al collo. Eccola. – E la sollevò per mostrarcela.
L’ispettore la esaminò e scrollò le spalle. – Il ladro doveva avere un duplicato della chiave, la serratura è semplice. Che cosa ha fatto, dopo aver chiuso il portagioie?
– L’ho rimesso nel cassetto in basso, dove lo tengo di solito.
– Non ha chiuso a chiave il cassetto?
– No, non lo faccio mai; la cameriera rimane nella stanza fino a che salgo io e quindi non ce n’è bisogno.
Il viso dell’ispettore sembrò farsi più grigio.
– Vuol dire che quando lei è scesa a cena i gioielli c’erano, e che da quel momento la cameriera non ha mai lasciato la stanza? All’improvviso, come se l’orrore della situazione in cui si trovava le fosse apparso chiaramente per la prima volta, Célestine mandò un grido lacerante e riversò su Poirot un torrente di parole incoerenti.
Quell’allusione era infame! Lei sospettata di derubare madame! Del resto, tutti sanno quanto sia stupida la polizia! Ma monsieur, che era francese...
– Belga – la interruppe Poirot, ma Célestine non fece caso alla precisazione.
Monsieur non sarebbe rimasto lì a vederla accusare falsamente, mentre l’infame cameriera dell’albergo veniva lasciata libera. Non le era mai piaciuta, quella donna sfrontata dalla faccia rossa, una ladra nata. Lei lo aveva detto fin dall’inizio, che non era una donna onesta, e l’aveva tenuta d’occhio quando rifaceva la stanza di madame! Che quegli idioti di poliziotti la perquisissero: ci sarebbe stato da meravigliarsi, se non le avessero trovato addosso le perle! Anche se quell’arringa era stata pronunciata in un francese rapido e furibondo, Célestine si era abbondantemente aiutata con i gesti e la cameriera dell’albergo era riuscita a capire quasi tutto.
Diventando tutta rossa, dichiarò con veemenza: – Se questa straniera dice che sono stata io a prendere la collana di perle, è una bugiarda! Non le ho neanche mai viste.
– Perquisitela! – gridò l’altra. – Le troverete, ve lo dico io.
– Sei una bugiarda, hai capito? – strillò la cameriera dell’albergo. – Le hai rubate tu e vuoi dare la colpa a me. Ma come, se sono entrata in questa stanza soltanto tre minuti prima che arrivasse la signora, e tu te ne stavi seduta qui come un gatto che sorveglia il topo!
L’ispettore guardò Célestine con aria inquisitoria. – È vero? Non ha mai lasciato la stanza?
– Non l’ho mai lasciata sola nella stanza a lungo – ammise con riluttanza Célestine – anche se sono andata in camera mia due volte, una per prendere del filo e un’altra per prendere le forbici. Deve averlo fatto in pochi attimi.
– Ma se non sei stata via neanche un minuto – ribatté irosamente la cameriera. – Sei schizzata fuori e rientrata subito. Vorrei proprio che la polizia mi perquisisse! Non ho niente da temere, io.
In quel momento si sentì bussare alla porta. L’ispettore andò ad aprirla e si rischiarò subito in volto quando vide chi c’era. – Oh! – esclamò. – Siamo fortunati. Avevo mandato a chiamare una delle nostre ispettrici, ed eccola qui. Vada con lei nell’altra stanza, se non le dispiace.
Guardò la cameriera che uscì a testa alta, seguita dall’ispettrice.
La cameriera francese si era lasciata cadere su una poltrona, singhiozzando.
Poirot, intanto, esaminava la stanza, della quale ho disegnato uno schizzo.

Il furto di gioielli al Grand Metropolitan
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– Dove dà quella porta? – chiese, indicando con un cenno del capo la porta accanto alla finestra.
– Nell’appartamento vicino, credo – rispose l’ispettore. – È chiusa da questa parte col chiavistello.
Poirot attraversò la stanza e provò ad aprire la porta, poi tirò il chiavistello e riprovò di nuovo.
– E anche dall’altra parte – osservò. – Bene, e questa possiamo eliminarla.
Si avvicinò alle finestre, esaminandole una alla volta.
– Anche qui... niente, nemmeno un balcone.
-Anche se ci fosse – disse spazientito l’ispettore – non significherebbe niente, visto che la cameriera non ha mai lasciato la stanza...
Fu interrotto dalla ricomparsa della cameriera dell’albergo e dell’ispettrice di polizia.
– Niente – disse quest’ultima, laconicamente.
– Vorrei ben vedere – disse la cameriera, offesa. – E quella donnaccia francese dovrebbe vergognarsi di calunniare una donna onesta!
– Su, su, ragazza mia, è tutto a posto – disse l’ispettore aprendo la porta. – Nessuno sospetta di lei. Torni pure al lavoro.
La cameriera fece per andarsene malvolentieri.
– Perquisirete anche lei, vero? – chiese, indicando Célestine.
– Sì, sì!
L’ispettore le chiuse la porta in faccia e girò la chiave nella toppa. Célestine seguì l’ispettrice nella stanzetta vicina e qualche minuto dopo ritornò: addosso non aveva nulla.
Il volto dell’ispettore divenne molto severo. – Temo che dovrò chiederle ugualmente di venire con me, signorina. – Si rivolse alla signora Opalsen. – Mi dispiace, signora, ma tutte le prove vanno in questa direzione. Se non li ha addosso, deve averli nascosti nella sua stanza.
Célestine emise un urlo stridulo e si aggrappò al braccio di Poirot, che si chinò e le bisbigliò qualcosa all’orecchio. Lei lo guardò con espressione dubbiosa.
– Sì, sì, mon enfant, le assicuro che è meglio non fare resistenza. – Poi si rivolse all’ispettore: – Permette, monsieur, che faccia un piccolo esperimento, per mia soddisfazione personale?
– Dipende da cosa si tratta – rispose il funzionario di polizia, che non voleva impegnarsi.
Poirot si rivolse ancora una volta a Célestine. – Ci ha detto di essere andata in camera sua a cercare del filo. Dove lo tiene?
– Sul ripiano della cassettiera, monsieur.
– E le forbici?
– Anche quelle erano lì.
– La disturberei troppo, mademoiselle, se le chiedessi di ripetere esattamente quello che ha fatto? Era seduta qui a lavorare, ha detto? Célestine sedette e poi, a un cenno di Poirot, si alzò, passò nella stanza vicina, prese un oggetto dalla cassettiera e tornò.
Poirot divideva la propria attenzione tra i movimenti della donna e un grande orologio da taschino che teneva nel palmo della mano.
– Ancora una volta, per favore, mademoiselle.
Dopo che Célestine fu di nuovo uscita e rientrata, lui annotò qualcosa sulla sua agenda e rimise l’orologio in tasca.
– Grazie, mademoiselle, e grazie anche a lei, monsieur – fece un cenno del capo all’ispettore – per la vostra cortesia.
L’ispettore sembrò piuttosto divertito da quella eccessiva gentilezza. Célestine se ne andò in un mare di lacrime, accompagnata dall’ispettrice e dal funzionario in borghese.
Poi, dopo essersi brevemente scusato con la signora Opalsen, l’ispettore fece mettere a soqquadro la stanza. Tirò fuori i cassetti, aprì gli armadi, disfece completamente il letto e picchiò sul pavimento. Il signor Opalsen osservava la scena con aria scettica.
– Crede davvero che le ritroverete?
– Sì, signore, è abbastanza logico. Non ha avuto il tempo di portare la collana fuori dalla stanza. Il fatto che la signora abbia scoperto il furto così presto ha sconvolto i piani del ladro. Una delle due cameriere deve averla nascosta... ed è molto improbabile che sia stata la cameriera dell’albergo.
– Più che improbabile... è impossibile – affermò Poirot con calma. – Come? – L’ispettore lo guardò con tanto d’occhi.
Poirot sorrise con modestia. – Le darò una dimostrazione. Hastings, prenda il mio orologio. Attento, è un’eredità di famiglia! Poco fa ho cronometrato i movimenti di mademoiselle; la prima assenza dalla stanza è durata dodici secondi, la seconda quindici. Ora, osservi attentamente. Madame sarà così gentile da darmi la chiave del portagioie. Grazie. Il mio amico Hastings avrà la gentilezza di darmi il via.
– Via! – dissi.
Con velocità quasi incredibile Poirot tirò con forza il cassetto della toilette, tolse il portagioie, inserì la chiave nella serratura, aprì il portagioie, prese un gioiello, chiuse a chiave il portagioie e lo rimise nel cassetto, che richiuse. Il tutto con movimenti veloci come il fulmine.
– E allora, mon ami? – chiese col fiato mozzo.
– Quarantasei secondi – risposi.
– Visto? – Si guardò attorno. – La cameriera non avrebbe nemmeno avuto il tempo di tirar fuori la collana dal portagioie, e tanto meno di nasconderla.
– E allora non ci resta che l’altra cameriera – disse l’ispettore con soddisfazione, riprendendo la sua ricerca.
Passò nella stanza di Célestine.
Poirot aveva un’espressione accigliata e pensosa. All’improvviso sparò una domanda al signor Opalsen. – La collana... indubbiamente era assicurata, vero?
– Sì – rispose lui con una certa esitazione – lo era.
– Ma che importanza ha? – interruppe la signora Opalsen in tono piagnucoloso. – È la mia collana che voglio, era unica. Nessuna somma di denaro potrebbe sostituirla.
– Comprendo, madame – rispose Poirot in tono consolatorio. – Comprendo perfettamente. Per una donna il sentimento è tutto, non è vero? Ma monsieur, che non ha una sensibilità altrettanto grande, troverà nel fatto una lieve consolazione.
– Già, già – disse il signor Opalsen in tono piuttosto incerto. – Tuttavia...
Fu interrotto da un grido di trionfo dell’ispettore, che rientrò nella stanza con qualcosa in mano.
Con uno strillo la signora Opalsen si alzò dalla sedia. Sembrava un’altra donna. – Oh, oh, la mia collana!
Se la strinse al seno con entrambe le mani. Noi ci radunammo attorno a lei.
– Dov’era? – chiese Opalsen.
– Nel letto di Célestine, tra le molle. Deve averla rubata e nascosta lì prima che arrivasse la cameriera dell’albergo.
– Permette, madame? – chiese con delicatezza Poirot e, presa la collana, la esaminò attentamente; poi gliela restituì con un inchino. – Temo, madame, che per il momento dovrà consegnarcela – disse l’ispettore. – Ne abbiamo bisogno per stendere il capo d’accusa. Ma le sarà restituita al più presto.
Il signor Opalsen si accigliò. – È necessario?
– Temo di sì, signore, è una semplice formalità.
– Non importa, Ed! – esclamò sua moglie. – Mi sentirò più sicura. Non riuscirei a chiudere occhio, al pensiero che qualcun altro potrebbe cercare di rubarmela. Ah! Quella disgraziata! Non l’avrei mai creduta capace di fare una cosa simile!
– Su, su mia cara, non prendertela così.
Sentii una lieve pressione sul braccio. Era Poirot. – Vogliamo filarcela, amico mio? I nostri servigi non sono più necessari. Tuttavia, una volta fuori esitò e poi con mia grande sorpresa osservò: – Mi piacerebbe vedere la stanza accanto.
La porta non era chiusa a chiave, così entrammo. La stanza, una grande camera doppia, non era occupata.
Si vedeva che non era stata spolverata da un bel po‘, e il mio sensibile amico fece una smorfia caratteristica mentre passava il dito su un segno rettangolare, sopra un tavolo accanto alla finestra. – Il servizio lascia a desiderare – osservò in tono asciutto.
Guardò pensoso fuori dalla finestra, in assorta meditazione.
– Allora? – chiesi io con impazienza. – Perché siamo venuti qui? Lui sobbalzò.
– Oh, le chiedo scusa, mon ami, volevo soltanto vedere se la porta era veramente chiusa a chiave anche da questa parte.
– Be‘ – dissi, dando un’occhiata alla porta comunicante con la stanza che avevamo appena lasciato – è chiusa a chiave.
Poirot annuì. Sembrava però ancora assorto nei suoi pensieri.
– E comunque – continuai io – che cosa importa? Il caso è chiuso. Era talmente semplice che nemmeno un idiota come quell’ispettore poteva evitare di risolverlo.
Poirot scosse il capo. – Il caso non è chiuso, amico mio. Non sarà chiuso finché non scopriremo chi ha rubato le perle.
– Ma è stata la cameriera!
– Ne è sicuro?
– Ma come! – balbettai. – Le hanno trovate... addirittura sotto il suo materasso.
– Via, via – disse con impazienza Poirot. – Non erano quelle, le perle.
– Come?
– Un’imitazione, mon ami.
La sua affermazione mi lasciò senza fiato. Poirot sorrideva placido. – Il buon ispettore ovviamente non si intende affatto di gioielli. Ma tra un po‘ ci sarà un bel trambusto!
– Su, andiamo! – esclamai tirandolo per un braccio.
– Dove?
– Dobbiamo dirlo subito agli Opalsen.
– Non credo.
– Ma quella povera donna...
– Eh bien, quella povera donna, come la chiama lei, passerà una notte più tranquilla pensando che il suo gioiello è al sicuro.
– Ma il ladro potrebbe fuggire con le perle!
– Come al solito, amico mio, lei parla senza riflettere. Come fa a sapere che le perle così attentamente custodite dalla signora Opalsen non fossero false, e che il vero furto non sia avvenuto molto tempo fa?
– Oh! – dissi io, attonito.
– Proprio così – affermò Poirot, raggiante. – Ricominciamo da capo.
Uscì dalla stanza, si fermò un momento come per riflettere, quindi percorse il corridoio fino in fondo, fermandosi fuori dalla stanzetta in cui si riunivano cameriere e camerieri dei rispettivi piani. Una cameriera era al centro di un gruppetto e stava raccontando le sue ultime esperienze a un pubblico attento. Si fermò a metà di una frase mentre Poirot si inchinava davanti a lei con la solita gentilezza.
– Mi scusi per il disturbo, ma le sarò grato se vorrà aprirmi la porta della stanza del signor Opalsen.
La donna si alzò senza farsi pregare e la seguimmo di nuovo in corridoio. La stanza del signor Opalsen era di fronte a quella di sua moglie; la cameriera l’aprì col passepartout e noi entrammo.
Poirot la fermò prima che lei se ne andasse. – Un momento; ha visto un biglietto come questo, tra le cose del signor Opalsen?
Le mostrò un cartoncino bianco lucido, di tipo poco comune. La cameriera lo prese e lo esaminò attentamente.
– No, signore, non posso dire di averlo visto, ma di solito è il cameriere che si occupa di questa stanza.
– Capisco. Grazie.
Poirot riprese il biglietto e la donna se ne andò. Il mio amico sembrò riflettere per un po‘, poi fece un brusco cenno del capo. – Per favore, Hastings, suoni il campanello tre volte, per il cameriere. Obbedii, divorato dalla curiosità. Nel frattempo Poirot aveva vuotato il cestino della carta straccia e stava rapidamente esaminandone il contenuto.
Di lì a poco arrivò il cameriere e Poirot gli pose la stessa domanda di prima, mostrandogli il biglietto. Ma la risposta fu identica. Il cameriere non aveva mai visto un biglietto di quel genere, tra le cose del signor Opalsen. Poirot lo ringraziò e lui si ritirò, dopo aver dato un’occhiata curiosa al cestino rovesciato e al suo contenuto sparso per terra.
Era difficile che non avesse sentito la pensosa osservazione di Poirot, che stava di nuovo rovistando tra le carte: – E la collana era assicurata per una forte cifra...
– Poirot! – esclamai. – Capisco...
– No, temo che lei non capisca, amico mio – rispose lui subito. –
Come al solito. È incredibile... ma è così. Torniamo nelle nostre stanze.
Una volta in camera, con mia enorme sorpresa, Poirot si cambiò rapidamente d’abito.
– Stasera vado a Londra – mi spiegò. – È di fondamentale importanza.
– Come?
– Assolutamente. Il vero lavoro, quello del cervello (ah! quelle straordinarie piccole cellule grigie) è stato fatto. Vado a cercare la conferma. E la troverò! E impossibile ingannare Hercule Poirot!
– Un giorno o l’altro farà fiasco – osservai, piuttosto seccato dalla sua vanità.
– Non si arrabbi, la prego, mon ami. Conto su di le perché mi faccia un piacere... sulla sua amicizia.
– Certo – risposi io subito, vergognandomi un po‘ della mia suscettibilità. – Di che si tratta?
– La manica della giacca che ho tolto... le dispiacerebbe spazzolarla? Vede, c’è rimasta sopra un po‘ di polverina bianca. Mi avrà senz’altro visto passare il dito attorno al cassetto della toilette, vero?
– No, non l’ho notato.
– Dovrebbe badare di più a quello che faccio, amico mio. Ho raccolto un po‘ di polvere col dito e poi me lo sono sfregato sulla manica; un’azione irrazionale che deploro... contraria a tutti i miei principi.
– Ma che cos’era quella polvere? – chiesi, per niente interessato ai principi di Poirot.
– Non era certo il veleno dei Borgia – ribatté lui, ammiccando. – Vedo che la sua immaginazione sta lavorando. Direi che si tratta di talco.
– Talco?
– Sì. A volte si usa per far scorrere meglio i cassetti.
– Vecchia volpe, avevo pensato che stesse tramando qualcosa di molto eccitante!
– Au revoir, amico mio, scappo. Volo!
La porta si chiuse alle sue spalle. Con un sorriso di sufficienza, ma anche di affetto, presi la giacca e allungai la mano verso la spazzola per i vestiti.
Il mattino dopo, non avendo avuto notizie di Poirot, uscii a fare una passeggiata, incontrai dei vecchi amici e pranzai al loro albergo. Nel pomeriggio andammo a fare un giro in macchina, una gomma bucata ci fece ritardare e quando tornai al Grand Metropolitan erano le otto passate.
La prima cosa che vidi fu Poirot, letteralmente incastrato tra gli Opalsen. Il suo viso raggiava di placida soddisfazione.
-Mon ami Hastings! – esclamò e balzò in piedi per venirmi incontro. -Amico mio, tutto è andato a meraviglia!
– Vuol dire... – cominciai io.
– Dico che è assolutamente meraviglioso! – intervenne la signora Opalsen con un gran sorriso sul volto grasso. – Non ti avevo detto, Ed, che solo monsieur Poirot poteva ritrovare le mie perle?
– L’hai detto, mia cara, l’hai detto e avevi ragione.
Guardai Poirot con espressione impotente e lui mi restituì l’occhiata.
– Il mio amico è in alto mare. Si sieda e le racconterò come è andata la faccenda e come si è felicemente conclusa.
– Conclusa?
– Ma sì, sono stati arrestati.
– Chi è stato arrestato?
– La cameriera e il cameriere dell’albergo, parbleu! Non l’aveva sospettato? Nemmeno quando, prima di andarmene, ho accennato al talco?
– Aveva detto che si usa per far scorrere meglio i cassetti.
– Certo... Qualcuno voleva che quel cassetto scivolasse fuori e dentro senza fare il minimo rum?re. Di chi poteva trattarsi? Ovviamente solo della cameriera dell’albergo. Il piano era così ingegnoso che non è subito balzato agli occhi, neppure a quelli di Hercule Poirot. Ecco la dinamica dei fatti: il cameriere è in attesa nella camera accanto, vuota. La cameriera francese lascia la stanza. Veloce come un fulmine, la cameriera dell’albergo spalanca il cassetto, ne toglie il portagioie e, dopo aver tirato il chiavistello, apre la porta e lo passa al complice. Il cameriere apre con tutta calma il portagioie col duplicato della chiave, tira fuori la collana e aspetta. Célestine lascia la stanza di nuovo e... pst!... in un lampo il portagioie viene ripassato di là e rimesso a posto. Arriva madame e si scopre il furto. La cameriera chiede di essere perquisita con virtuosa indignazione e lascia la stanza. La collana fasulla che i due si erano procurati è stata nascosta quella mattina sotto il materasso della cameriera francese: un colpo da maestri, questo!
– Ma perché è andato a Londra?
– Ricorda il cartoncino?
– Certo. Mi ha lasciato perplesso... pensavo...
Esitai con delicatezza, dando un’occhiata al signor Opalsen.
Poirot rise di gusto. – Un piccolo inganno a beneficio del cameriere. Il cartoncino era speciale, aveva una superficie appositamente predisposta per rilevare le impronte digitali. Sono andato dritto filato a Scotland Yard, ho chiesto del nostro vecchio amico, l’ispettore Japp, e gli ho spiegato i fatti. Come avevo sospettato, è risultato che le impronte digitali erano quelle di due noti ladri di gioielli ricercati dalla polizia. Japp è tornato qui con me, i ladri sono stati arrestati e la collana è stata trovata in possesso del cameriere. Una coppia astuta, Hastings, ma carente nel metodo. Le ho già detto almeno trentasei volte, Hastings, che senza metodo...
– Almeno trentaseimila volte – lo interruppi. – Ma dov’è che il loro metodo non ha funzionato?
– Mon ami, è un ottimo piano farsi assumere come cameriere o cameriera, ma bisogna comportarsi di conseguenza. Quei due hanno trascurato di spolverare una stanza vuota e quindi, quando lui ha deposto il portagioie sul tavolino accanto alla porta comunicante, l’oggetto ha lasciato una traccia rettangolare...
– Me la ricordo! – esclamai.
– Prima ero indeciso poi... ho raggiunto la certezza!
Seguì un momento di silenzio.
– E io ho riavuto le mie perle – disse la signora Opalsen come una specie di coro greco.
– Bene – dissi io. – Sarà meglio che vada a mangiare qualcosa. Poirot mi accompagnò.
– Si è coperto di gloria un’altra volta – osservai.
– E invece no – ribatté Poirot tranquillamente. – Japp e l’ispettore locale si divideranno il merito, ma – si batté una mano sulla tasca – ho qui un assegno del signor Opalsen e, anche se questo fine settimana non è andato secondo i piani, possiamo senz’altro tornare qui la settimana prossima, questa volta a mie spese!

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