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Fascismo e le libertà

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Tesine
 · 16 Mar 2017

Fascismo, le libertà e gli intellettuali

Fascismo e le Libertà
L’organizzazione del nuovo Stato fascista sul piano legislativo avvenne nel 1925-1926 e fu completata nei due anni seguenti.
Pertanto furono sciolti tutti i partiti e le organizzazioni sindacali; furono soppresse le libertà di stampa e di associazione e di riunione; fu creato un tribunale speciale per la difesa dello Stato; sul piano costituzionale, anche se le attribuzioni di capo dello stato restavano al Re, con la legge del 24 Dicembre 1925 fu introdotta la figura del capo del governo distinto dal ministero, non più responsabile di fronte al parlamento e revocabile soltanto dal sovrano, e si stabilì che nessuna legge poteva essere posta all’ordine del giorno del parlamento senza la previa autorizzazione del capo del governo, con il che si pose praticamente fine alla libera discussione parlamentare.
I poteri legislativi ed esecutivi passarono di fatto a Mussolini, capo del governo e capo del fascismo, con il concorso del Gran consiglio (leggi 9 Dicembre 1928 e 14 Dicembre 1929), che doveva tenere sempre pronta una lista di ministri e di capi del governo da sottoporre alla Corona, per cui la designazione a queste cariche passò dal parlamento al partito fascista. Nel 1929 la camera dei deputati fu subordinata ancora più strettamente al regime, con l’istituzione di una lista unica di candidati, redatta dal Gran consiglio, e sottoposta in blocco a un plebiscito; nel 1939, infine, fu abolito anche il sistema plebiscitario, in virtù della creazione della camera dei fasci e delle corporazioni, di nomina governativa.
Dei fondamenti dello Stato di diritto comunemente riconoscibili nel corso della moderna storia d’Italia e d’Europa, si potrebbe dire che il fascismo ne soppresse la maggior parte, con l’eccezione della proprietà privata.
Infatti tutta la cronaca politica dal 1926 al 1927 e nei mesi seguenti, è cronaca di repressione. Tre giorni dopo la dichiarazione di decadenza dell’Aventino, veniva arrestato alla stazione di Roma, il popolarissimo capitan Giulietti, l’amico e il protetto di Gabriele D’Annunzio: ormai Mussolini si sentiva i gomiti completamente liberi.
L’architrave giuridico che regolò i rapporti di lavoro fu la legge del 3 Aprile 1926, preparata da Alfredo Rocco, con la quale si istituiva una speciale magistratura del Lavoro per conciliare le controversie sindacali e, soprattutto, si abolivano sia il diritto di sciopero per i lavoratori che il diritto di “serrata” per i datori di lavoro. La misura non era affatto paritaria, giachè agli imprenditori veniva lasciata di fatto ogni possibilità concreta di eludere o ignorare la norma.
Oltre a colpire ogni altro diritto di associazione sindacale, il fascismo negava il principale fra i diritti dei lavoratori e colpiva duramente, con inflessibile e persistente minuzia, ogni infrazione operaia e contadina al divieto di sciopero.
Il Sindacato unico fascista, diretto da Edmondo Rossoni, poteva inoltre legalmente farsi rappresentante della totalità dei lavoratori, anche di quelli non iscritti al sindacato stesso: a tutti indistintamente veniva così prelevata una quota di salario come contributo sindacale obbligatorio. Dunque al danno giuridico si aggiungeva, per così dire, un’ulteriore, piccola beffa patrimoniale per le classi lavoratrici.
Tutte le conquiste, anche quelle minori, ottenute da braccianti e mezzadri con i contratti collettivi strappati ai padroni tra il 1919 e il 1920, furono azzerate.
Ben poche delle pur misere provvidenze assistenziali e sindacali di cui potevano giovarsi i lavoratori urbani furono concesse ai contadini senza terra.
Col fascismo i proprietari reimposero oneri e obbligazioni di tipo semifeudale, che fecero parlare ad alcuni grandi economisti liberali come Luigi Einaudi di una restaurazione della servitù della gleba nell’Italia fascista.
Il fascismo si identificava ormai con lo Stato, concepito dalla dottrina ufficiale come Stato Etico che risolveva in se l’individuo; ed esso tese a fascistizzare il paese, utilizzando la stampa, strumentalizzando la scuola, inquadrando fin dall’infanzia la gioventù in apposite organizzazioni fasciste (Opera nazionale balilla, poi Gioventù italiana del littorio,….).
A Firenze nel 25 era comparso il “Non Mollar!”, uno dei primi fogli antifascisti stampato clandestinamente per ispirazione di Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli.
Era uno dei tanti riscontri delle clamorose e progressive limitazioni alla libertà di stampa che il fascismo stava approvando. Il governo faceva largo uso della censura e i prefetti del sequestro dei giornali; la pressione fu indirizzata sia verso i proprietari delle testate maggiori, sia verso i più prestigiosi direttori e giornalisti italiani. La stampa cosiddetta “indipendente” e “d’opinione” fu gradualmente inquadrata nel regime, mentre i quotidiani dei partiti antifascisti vennero più semplicemente soppressi.
Le leggi del Novembre 1926, denominate non a caso “fascistissime” dichiararono decaduti i deputati che avevano dato vita alla secessione aventiniana. Nell’occasione molti deputati comunisti, compreso Antonio Gramsci vennero arrestati; le associazioni politiche e sindacali antifasciste furono sciolte e messe fuori legge; fu istituito un Tribunale speciale per la difesa dello stato, i cui giudici erano ufficiali della Milizia, e venne reintrodotta la pena di morte, che sarebbe stata in seguito applicata contro alcuni antifascisti perseguiti per reati d’opinione. L’abolizione dell’elettività delle amministrazioni locali e il ritorno alla pena capitale costituiscono due esempi di una tendenza che rischiava di far arretrare lo Stato italiano alla situazione precedente e le riforme “Liberali” di fine 800.
Il carattere apertamente reazionario del fascismo fu infine pienamente affermato con le nuove leggi di polizia, che abolirono basilari diritti umani e civili, garanzie giuridiche e libertà fondamentali.
Con la sua caratteristica tattica duplice, nel 1928 Mussolini volle sanzionare la piena e totale compatibilità tra organi fascisti e organi dello Stato con la cosiddetta “costituzionalizzazione” del Gran Consiglio.
La parola non deve ingannare, in quanto una vera costituzione non esisteva nello stato fascista. Era infatti ancora in vigore, per quanto trasformato dalla dittatura, il vecchio Statuto, concesso da Carlo Alberto al Regno di Sardegna nel lontano 1848.
Dal 1928, comunque, il Gran Consiglio del fascismo non fu più un organo semiocculto, ma pienamente legalizzato, al punto che divenne un pilastro dell’ordinamento giuridico dello Stato, con poteri delicatissimi e competenze politiche che sembrarono ledere persino alcune prerogative regie, come nel caso della facoltà di esprimere un parere sulla successione al trono, materia fino ad allora gelosamente ed esclusivamente custodita da casa Savoia.
Se il fascismo poteva dunque vantare un grado assai elevato di organizzazione dell’adesione tra le élite e i ceti dirigenti, la sua penetrazione tra le masse fu molto più lenta, difficile e contraddittoria, anche se negli strati di popolazione più disgregati e subalterni, il regime rimase soddisfatto dell’opera di mera neutralizzazione di istinti sovversivi o di ribellismi primitivi.
Uno strumento che ebbe molto successo nell’attrarre le masse nell’orbita del regime fu l’Opera nazionale dopolavoro. Organizzando per la prima volta il tempo libero, il fascismo concedeva agli iscritti a questa istituzione alcuni vantaggi reali: sconti su biglietti per gli spettacoli cinematografici e teatrali, gite sui “treni popolari”, una sede dove poter giocare alle bocce o a carte,…..
Nella diffusione di una cultura fascista di massa, fatta di elementari slogan ultranazionalisti, non si deve dimenticare un fattore importante come lo sfruttamento dello sport da parte della dittatura. Il calcio e il ciclismo, con i loro campioni, alimentarono infatti l’amor proprio e l’identità nazionale di tanti italiani, fieri delle vittorie della nazionale di calcio ai campionati mondiali del 1934 e del 1938, o delle imprese ciclistiche di Learco Guerra e di Gino Bartali.

Fascismo e gli intellettuali
Nel campo della cultura il fascismo si distinse per alcuni tentativi non effimeri di organizzare il consenso degli intellettuali. Già Mussolini aveva coltivato frequentazioni con gli ambienti delle avanguardie artistiche e letterarie, in particolare con i futuristi, e si era preoccupato di stabilire solidi legami personali con intellettuali della destra liberale e nazionalista. Nel 1925 gentile aveva stilato un Manifesto degli Intellettuali fascisti, al quale aveva però replicato Benedetto Croce raccogliendo per il suo contro-manifesto antifascista firme ben più autorevoli. Ma non c’è dubbio che la forza dei poteri costituiti, l’assuefazione al clima autoritario e fenomeni sempre più diffusi di conformismo spinsero gran parte degli intellettuali a una collaborazione con il regime.
Anche Gabriele D’Annunzio, pur tenuto a distanza da Mussolini, era osannato dal fascismo come uno dei suoi precursori più illustri. Il più celebre drammaturgo italiano, Luigi Pirandello, dichiarò la sua fede fascista. Lo scienziato Guglielmo Marconi servì il regime e ne fu remunerato con alte cariche, tra cui la presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche (creato nel 1923) e dell’Accademia d’Italia (creata nel 1926). L’impresa editoriale più sistematica, diretta da Gentile, fu quella dell’Enciclopedia Italiana, che voleva chiamare a raccolta tutte le forze intellettuali all’insegna di una superiore concordia nazionale. Dopo i giornali, inoltre, molte riviste culturali vecchie e nuove furono sempre più inclini a esaltare il fascismo.
Nelle università fu imposto nel 1931 un giuramento di fedeltà al regime che non fu accettato da appena undici docenti in tutta Italia. Erano sorte verso la fine degli anni Venti le prime facoltà di Scienze politiche, in cui si dava spazio ad insegnamenti volti a valorizzare la dottrina del fascismo e l’ideologia corporativa.
Alcuni gerarchi fascisti, come Giuseppe Bottai, dettero vita a riviste ambiziose come Critica fascista e lo stesso Mussolini, oltre a Il popolo d’Italia dirigeva la rivista Gerarchia. I professori universitari, gli appartenenti alle libere professioni, gli alti funzionari della carriera statale (militari, giudici, diplomatici, amministratori) fornirono in genere al governo fascista un’adesione concreta, pur fra numerose eccezioni di individui rimasti appartati e non certo in sintonia col regime, ma comunque incapaci di dar vita a qualcosa di più di una silenziosa lezione di dignità. I più entusiasti sostenitori del fascismo erano, forse non a caso, gli studenti e i giovani più sprovveduti e inesperti. Ma in ogni caso, pur trattandosi di apporti significativi e duraturi, queste adesioni derivavano in genere da ceti piuttosto ristretti, da cerchie chiuse, da èlite intellettuali. All’inizio degli anni Trenta, la parola d’ordine di Mussolini, andare al popolo, era la spia di un’esigenza, ma anche la confessione di un successo molto limitato nella raccolta di un consenso popolare profondo e radicato.

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