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Capitolo XXX

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I Promessi Sposi
 · 1 Jun 2019
G. B. Galizzi, Lanzichenecchi in casa del curato
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G. B. Galizzi, Lanzichenecchi in casa del curato

"Solo nel focolare si potean vedere i segni d'un vasto saccheggio accozzati insieme. C'era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti; il resto era cenere e carboni; e con que' carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi con certe berrettine e con certe chieriche, e con certe larghe facciole, di farne de' preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a certi artisti..."


Personaggi: Agnese, don Abbondio, Perpetua, l'innominato, il sarto e la sua famiglia

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, il castello dell'innominato, il confine col Bergamasco

Tempo: Autunno 1629 (circa un mese)

Temi: La guerra di Mantova e del Monferrato, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: Don Abbondio, Agnese e Perpetua arrivano al castello dell'innominato, che li accoglie benevolmente. Soggiorno dei tre nella fortezza. L'innominato difende il luogo dai lanzichenecchi, che dopo circa un mese completano il loro passaggio. L'ex-bandito regala ad Agnese del denaro, prima che questa riparta con i due compagni di viaggio. I tre tornano in paese e trovano le case devastate dai saccheggi dei soldati.


F. Gonin, I tre in viaggio
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F. Gonin, I tre in viaggio

Don Abbondio, Agnese e Perpetua verso il castello

Don Abbondio, Agnese e Perpetua sono in viaggio verso il castello dell'innominato sul calesse procurato loro dal sarto: l'afflusso maggiore di fuggitivi è dall'imboccatura opposta della valle, tuttavia strada facendo i tre incontrano parecchie persone dirette alla fortezza, che riferiscono macabri dettagli circa le ruberie e i saccheggi dei lanzichenecchi. Il curato si preoccupa all'idea che nel castello si raduni tanta folla, poiché teme che ciò attirerà le soldatesche in cerca di bottino; invano Perpetua cerca di farlo ragionare dicendogli che, nel pericolo, è meglio essere in tanti, e il nervosismo di don Abbondio aumenta quando, giunti all'ingresso della valle, scorge in una casa uomini armati a mo' di sentinelle, simili ai bravi incontrati nella sua prima visita. Il curato è sicuro che i fanti tedeschi tenteranno di espugnare il castello e si rammarica di essersi lasciato convincere a venire, ripromettendosi ad ogni buon conto di fuggire al primo segnale di battaglia e di rifugiarsi sui monti. Perpetua irride all'assurda paura del padrone, ma questi le impone di tacere e di non riportare nulla dei suoi discorsi quando saranno al cospetto dell'innominato.

F. Gonin, L'accoglienza dell'innominato
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F. Gonin, L'accoglienza dell'innominato

L'innominato accoglie i tre al suo castello

Giunti alla Malanotte, i tre trovano un picchetto di armati ai quali don Abbondio fa gesti cerimoniosi, quindi paga il conduttore del calesse e si accinge a salire lungo l'erta insieme alle due donne. La vista di quei luoghi riaccende nel curato ricordi spiacevoli, mentre Agnese osserva che anche Lucia è passata di lì quando è stata rapita: il curato la rimprovera intimandole di non dire nulla di simile in casa dell'innominato e raccomanda poi anche a Perpetua di astenersi dal dire cose spiacevoli in presenza del signore, nonostante la fama di santità di cui ora è circondato. L'innominato sta nel frattempo scendendo lungo il sentiero e ha già riconosciuto don Abbondio, il quale gli fa un profondo inchino e gli rende mille omaggi: il curato presenta al signore la sua governante e poi Agnese, sia pure con un certo imbarazzo (è la donna a dire senza giri di parole che lei è la madre di Lucia). L'innominato si rivolge ad Agnese con grande benevolenza e dandole il benvenuto, mentre lei lo ringrazia dell'ospitalità e del denaro ricevuto a suo tempo. L'ex-bandito accompagna poi gli ospiti al suo castello e, strada facendo, scambia alcune parole con don Abbondio circa l'avvicinarsi delle bande di lanzichenecchi, rassicurandolo sul fatto che la fortezza è ben difesa (ciò non tranquillizza minimamente il curato, che anzi è sempre più pentito di essersi rifugiato in quel luogo pieno di uomini armati).

Il paesetto salvato dall'innominato (ediz. 1840)
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Il paesetto salvato dall'innominato (ediz. 1840)

I tre al castello. Azioni militari dell'innominato

L'innominato accompagna Agnese e Perpetua nel quartiere del castello riservato alle donne, nella parte posteriore dell'edificio, mentre gli alloggi degli uomini sono in quella anteriore, di fronte all'ingresso: qui ci sono alcune camere riservate agli ecclesiastici e don Abbondio è il primo a prenderne possesso. Nella fortezza ci sono anche molti viveri ed è stato predisposto uno spazio in cui i rifugiati possono ammassare la roba eventualmente messa in salvo dalle loro case. I tre restano al castello ventitré o ventiquattro giorni, senza che accada nulla di particolare, salvo frequenti allarmi per l'arrivo di lanzichenecchi o "cappelletti" che si rivelano spesso infondati (in molti casi l'innominato esce in perlustrazione a capo di un drappello armato e mette in fuga soldati sbandati e retroguardie degli eserciti tedeschi). Solo una volta, durante una di queste azioni, giunge voce che i lanzichenecchi stanno saccheggiando un paesetto vicino, al che l'innominato decide di accorrere coi suoi uomini in soccorso. L'arrivo degli armati coglie i soldati tedeschi del tutto impreparati e li induce a una fuga precipitosa, mentre l'innominato li insegue per un tratto col suo piccolo esercito e poi desiste quando capisce che non torneranno indietro. Il drappello ripassa nel paesetto e viene accolto con applausi e benedizioni dagli abitanti per lo scampato pericolo.

F. Gonin, Don Abbondio al castello
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F. Gonin, Don Abbondio al castello

La vita dei rifugiati al castello

La convivenza nel castello di tante persone diverse per provenienza e condizione sociale non crea particolari problemi, anche perché l'innominato e i suoi uomini vigilano affinché non si creino disordini, opera alla quale su sua richiesta collaborano anche gli ecclesiastici presenti. Le persone rifugiate al castello sono del resto scappate dai lanzichenecchi e quindi possiedono un'indole quieta, senza contare che molti vivono nell'apprensione di quanto sta accadendo nei propri paesi; quelli di carattere più spensierato cercano di vivere in allegria e di stringere nuove amicizie, mentre gli ospiti che hanno danari da spendere cenano spesso nelle osterie della valle (per gli altri è il padrone di casa a fornire il vitto necessario). Agnese e Perpetua passano gran parte della giornata occupandosi di servizi vari e ripagando in tal modo l'ospitalità, a differenza di don Abbondio che non ha nulla da fare e, tuttavia, non si annoia mai perché troppo spaventato: ormai non teme più un assalto dei mercenari, tuttavia il carattere tetro del luogo lo rende inquieto e spesso pensa alla sua casa al paese esposta ai saccheggi. Durante la sua permanenza non si allontana mai dal castello e, tutt'al più, ne osserva i dirupi dall'alto, in cerca di una via di fuga in caso di una battaglia; non frequenta nessuno dei compagni di soggiorno e si sfoga sovente con Agnese e Perpetua, venendo non di rado rimbrottato da entrambe le donne. Ad aumentare l'inquietudine del curato sono le notizie dei tremendi saccheggi che giungono al castello dal circondario, spesso portate da persone fuggite all'ultimo istante senza aver potuto salvare niente dei propri beni e talvolta anche feriti.

Ritratto di A. von Wallenstein (XVII sec.)
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Ritratto di A. von Wallenstein (XVII sec.)

Il passaggio dei lanzichenecchi. I tre lasciano il castello


Le voci circa il passaggio delle soldatesche diventano ogni giorno più frequenti e spesso sono condite con particolari esagerati a bella posta: si discute su quali siano i reggimenti più agguerriti, se sia peggiore la fanteria o la cavalleria, si ripetono i nomi leggendari dei condottieri e le loro imprese, soprattutto si tiene il conto degli eserciti che superano il ponte di Lecco e che, perciò, hanno ormai abbandonato la regione. La terribile cavalcata dei lanzichenecchi si apre con le truppe di Albrecht von Wallenstein e si chiude con quelle di Mattia Galasso, dopo il quale il pericolo sembra ormai cessato; si allontanano intanto anche i mercenari veneti, per cui dal castello iniziano a partire un po' tutti i rifugiati ansiosi di tornare alle loro case, tranne don Abbondio il quale si trattiene ancora nel timore di incontrare nel viaggio di ritorno degli sbandati nella retroguardia dell'esercito (Perpetua ha un bel dire che bisogna rientrare alla svelta, prima che i manigoldi del paese portino via dalla loro casa quanto si è salvato dai saccheggi). Alla fine l'innominato prepara una carrozza alla Malanotte perché riporti i tre al loro paese e si congeda quindi dai suoi ospiti, non prima di aver donato ad Agnese un corredo di biancheria e del denaro per riparare i guasti che troverà nella sua casa. L'ex-bandito prega anche la donna di ringraziare Lucia, quando la rivedrà, per le preghiere che certo la giovane rivolge a Dio per la sua anima. La carrozza lascia la Malanotte e i tre fanno una sosta di nuovo a casa del sarto, dove si fermano solo il tempo necessario per apprendere nuovi e più coloriti racconti delle imprese dei lanzichenecchi (che per fortuna non sono giunti fin lì), quindi riprendono il viaggio verso il loro paese.

G. Galizzi, Don Abbondio accusa Perpetua
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G. Galizzi, Don Abbondio accusa Perpetua

Don Abbondio, Agnese e Perpetua tornano in paese

Man mano che la carrozza si avvicina al paese, i tre cominciano a vedere i tristi segni del passaggio dei fanti tedeschi: le vigne sono spogliate come da una bufera, gli alberi tronchi, gli usci delle case sfondati e gli abitanti intenti a ripulire l'interno del sudiciume lasciato dai mercenari; al passaggio della carrozza molti popolani tendono la mano a chiedere l'elemosina, finché i viaggiatori rientrano al loro paese trovando quello che si aspettavano. Agnese inizia subito a ripulire la sua abitazione e a far riparare i danni più seri, mentre si rallegra tra sé di avere la biancheria e il denaro donati dall'innominato, per cui nella disgrazia ha avuto un po' di fortuna. Don Abbondio e Perpetua trovano a loro volta la devastazione nella loro casa, con il pavimento insozzato dal sudiciume dei soldati, le stoviglie in pezzi, nel camino i segni del bivacco e i rimasugli di varie suppellettili bruciate, mentre coi carboni spenti i lanzichenecchi si sono divertiti a disegnare sul muro delle grottesche caricature di preti cattolici. I due imprecano contro i saccheggiatori e poi escono a respirare nell'orto, dove però li attende un'amara sorpresa: qui, ai piedi del fico dove Perpetua aveva seppellito il denaro, trovano la terra smossa e una buca, segno evidente che i mercenari si sono portati via tutto; il curato accusa la governante di non aver nascosto bene il denaro e questa gli risponde per le rime, finché i due si allontanano mestamente e si preparano penosamente a rimettere in sesto l'abitazione, cosa che gli riuscirà con non poca fatica e grazie anche a denari prestati da Agnese.

 <br>Le lamentele di Perpetua (ediz. 1840)
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Le lamentele di Perpetua (ediz. 1840)

Discussioni tra don Abbondio e Perpetua

Il ritorno in paese provoca poi nuovi guai per il povero don Abbondio, poiché Perpetua, a furia di chiedere in giro, viene a sapere che molti oggetti della casa che si credevano preda dei soldati sono stati invece rubati da alcuni paesani, per cui la donna insiste col padrone perché vada a farseli restituire. Il curato non ne vuole sapere, in quanto gli autori dei furti sono persone prepotenti con cui evita di avere a che fare, e questo suscita le dure rimostranze di Perpetua, che accusa continuamente il curato di essere un uomo dappoco e di non saper far valere le proprie ragioni. Le discussioni sono talmente noiose che don Abbondio arriva al punto di non lamentarsi più quando si accorge della mancanza di qualcosa, pur di non sentire la propria governante ricominciare con la solita ramanzina. Don Abbondio teme inoltre che gli ultimi fanti tedeschi attardati possano compiere ulteriori saccheggi e si preoccupa di tenere sempre l'uscio di casa sprangato, anche se fortunatamente una simile eventualità non si verifica; in effetti il pericolo rappresentato dai lanzichenecchi è ormai cessato, mentre si avvicina minaccioso quello assai più grave e diffuso che i mercenari tedeschi hanno portato con sé, ovvero la peste.

Temi principali e collegamenti

- Il capitolo è la seconda parte di un "dittico" iniziato con quello precedente, narrando l'arrivo di don Abbondio, Agnese e Perpetua al castello dell'innominato e la loro permanenza lì per meno di un mese, quindi il loro ritorno a casa dopo il tremendo passaggio dei lanzichenecchi. I capitoli seguenti (XXXI-XXXII) saranno interamente dedicati alla peste e costituiranno una nuova ampia digressione storica, prima della ripresa della narrazione nel cap. XXXIII.

- Il vero protagonista dell'episodio è don Abbondio, che si mostra ossequioso e garbato nei confronti dell'innominato, timoroso fino all'eccesso di un eventuale assalto dei mercenari, infine pusillanime quando torna a casa e rinuncia a far valere i propri diritti verso i compaesani che l'hanno derubato. Il capitolo vede anche l'ultima apparizione nel romanzo di Perpetua, poiché nel cap. XXXIII il curato informerà Renzo che la donna è morta di peste.

- In questo capitolo si ha l'unico vero squarcio narrativo sulle vicende di guerra che fanno da sfondo al romanzo, attraverso la descrizione del castello dell'innominato trasformato in fortilizio e della sua vita all'interno, nonché delle imprese militari dell'ex-bandito nel cacciare i lanzichenecchi e del grandioso ed "epico" passaggio delle truppe tedesche al comando dei loro celebri condottieri, tra cui il Wallenstein (sul punto si veda oltre).

- Nell'ultima parte dell'episodio ci vengono poi mostrati i terribili segni del passaggio dei mercenari e la distruzione che si sono lasciati dietro, riportando il piano della narrazione su quello dei personaggi umili e della popolazione contadina.

- Agnese ringrazia l'innominato per i cento scudi che l'uomo le aveva consegnato tramite il cardinal Borromeo (cap. XXVI), affermando inoltre di averne ancora una certa quantità (li tiene cuciti nel busto e la paura di perdere questo denaro l'aveva spinta nel cap. XXIX a proporre a don Abbondio di accompagnarla al castello). Prima di lasciare la fortezza Agnese riceve dall'innominato altri soldi, che una volta rientrata al paese le permetteranno di riparare i guasti del saccheggio.

 <br>E. Crofts, Wallenstein alla Guerra dei Trent'anni (1884)
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E. Crofts, Wallenstein alla Guerra dei Trent'anni (1884)

La guerra in Lombardia, tra epos e vita quotidiana

I capp. XXIX-XXX sono l'unico momento del romanzo in cui la guerra per la successione di Mantova, tante volte evocata nel corso della narrazione, irrompe nelle vicende dei protagonisti con la rovinosa calata dei lanzichenecchi, anche se l'azione militare non viene descritta direttamente e se ne vedono soltanto le conseguenze sui contadini, costretti a lasciare le loro case per sfuggire ai saccheggi dei mercenari. Ciò è conforme alla scelta stilistica dell'autore, che rinuncia a narrare le battaglie e i grandi eventi della storia per analizzare piuttosto i mali patiti dalla popolazione più umile, quelle "gente meccaniche, e di piccol affare" citate dall'anonimo nell'Introduzione e a cui il romanziere dedica l'attenzione principale; la cosa è evidente anche nel soliloquio di don Abbondio all'inizio del cap. XXIX, quando il curato è costretto a lasciare la sua casa e impreca contro i potenti che per "il gusto di far la guerra" provocano patimenti a "chi non ci ha colpa", esprimendo il punto di vista di Manzoni che condanna la guerra di Mantova come inutile e foriera di terribili conseguenze per gli umili. La guerra viene quindi mostrata in modo indiretto, anche se l'autore apre qualche squarcio narrativo sul conflitto descrivendo soprattutto la vita dei rifugiati all'interno del castello dell'innominato, trasformato in baluardo difensivo pronto a respingere un eventuale assalto dei lanzichenecchi (che poi non si verifica, nonostante i timori di don Abbondio); l'unico condottiero che viene mostrato in azione è proprio l'innominato, che pure comanda i suoi uomini restando completamente disarmato e, dunque, rappresenta un modello assolutamente atipico di capo militare, determinato a difendere i deboli e non certo ad offendere il nemico. Se ne ha un esempio nel soccorso portato al paesetto assalito dai lanzichenecchi (XXX), i quali sono messi in fuga senza praticamente sparare un colpo e vengono lasciati andare dopo un breve inseguimento, per cui l'unica battaglia direttamente narrata nel romanzo si conclude in modo assolutamente incruento. La guerra vera e propria, col suo terribile strascico di morti, devastazioni e violenze, resta lontana sullo sfondo e se ne ha una specie di eco attraverso i racconti che arrivano al castello, arricchiti di particolari eccessivi e con un'inevitabile coloritura letteraria: Manzoni indulge a una descrizione "romantica" e tendente all'epos solo descrivendo i condottieri dell'esercito imperiale che passano il ponte di Lecco, grandiosa rassegna che si apre con il reggimento di cavalleria di Wallenstein - non presente personalmente nell'occasione - e che ricorda altre pagine manzoniane altrettanto celebri, specie il I Coro dell'Adelchi che narra la calata dei Franchi in Italia (l'elenco dei capitani imperiali è tratto da un'epistola di Sigismondo Baldoni, che assistette di persona al passaggio delle truppe). Se quindi il frastuono delle grandi battaglie giunge per così dire ovattato al castello dell'innominato, e la violenza bieca dei lanzichenecchi non viene descritta nella sua crudezza, vi è invece un'ampia e dettagliata panoramica delle devastazioni che essi hanno lasciato dietro di sé, attraverso il punto di vista di don Abbondio, Agnese e Perpetua quando fanno ritorno al loro paese: ciò che colpisce il lettore è soprattutto l'insensata ferocia con cui i soldati si sono abbandonati ai saccheggi, distruggendo ogni cosa per un atto di puro vandalismo e insozzando le case per marcare in modo bestiale il loro passaggio, senza dimenticare la scia di uccisioni, torture, stupri che essi hanno compiuto e che l'autore omette di raccontare in virtù della sua tradizionale reticenza. Il narratore concentra il suo sguardo sul prezzo che i poveri debbono pagare per le manovre politiche e militari dei potenti che fanno la guerra, indifferenti a quanto accade alle popolazioni cui dovrebbero badare, quindi rovescia la prospettiva della storiografia ufficiale che narra solo gli eventi e le battaglie dei nobili condottieri, tra il "rimbombo de' bellici oricalchi" che a Manzoni interessa assai meno del dolore e delle sofferenze degli umili. Ovviamente c'è spazio per la comicità di don Abbondio e Perpetua alle prese con la casa devastata, con le loro reciproche accuse di non aver nascosto a dovere il denaro e la viltà del curato che è stato derubato anche dai suoi compaesani, ma questo è in fondo il modo con cui Manzoni riconduce la tragedia della guerra alla dimensione della vita quotidiana, che la violenza bellica sconvolge e che normalmente non trova spazio nelle cronache e nei racconti degli storici, mentre è proprio su questo piano che il romanziere vuole condurre la narrazione, confinando i ragguagli storici nelle pagine di digressione che raramente sono intrecciate alle vicende dei personaggi principali. Il passaggio dei soldati tedeschi è poi la premessa di un altro ben più grave e terribile flagello, ovvero la peste che essi hanno portato in Lombardia e che è anch'essa prodotta dall'insensatezza della guerra, come si vedrà nella digressione storica dei capp. XXXI-XXXII in cui, allo stesso modo, l'autore si concentrerà sulle conseguenze del contagio fra la popolazione milanese e sulle responsabilità del potere pubblico nell'aver sottovalutato la portata del pericolo, per motivi del tutto analoghi a quelli che hanno indotto i sovrani ad iniziare una guerra inutile.
Per approfondire: U. Dotti, Guerra, fame, peste.

Capitolo XXX

Quantunque il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi s’avvicinavano alla valle, ma all’imboccatura opposta, con tutto ciò, cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e viottole erano sboccati o sboccavano nella strada. In circostanze simili, tutti quelli che s’incontrano, è come se si conoscessero. Ogni volta che il baroccio aveva raggiunto qualche pedone, si barattavan domande e risposte. Chi era scappato, come i nostri, senza aspettar l’arrivo de’ soldati; chi aveva sentiti i tamburi o le trombe; chi gli aveva visti coloro, e li dipingeva come gli spaventati soglion dipingere.
- Siamo ancora fortunati, - dicevan le due donne: - ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno siamo in salvo.
Ma don Abbondio non trovava che ci fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e più ancora il maggiore che sentiva esserci dall’altra parte, cominciava a dargli ombra. - Oh che storia! - borbottava alle donne, in un momento che non c’era nessuno d’intorno: - oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che lassù ci siano tesori. Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono. Oh povero me! dove mi sono imbarcato!
- Oh! voglion far altro che venir lassù, - diceva Perpetua: - anche loro devono andar per la loro strada. E poi, io ho sempre sentito dire che, ne’ pericoli, è meglio essere in molti.
- In molti? in molti? - replicava don Abbondio: - povera donna! Non sapete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Era meno male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!... Seccatori! - borbottava poi, a voce più bassa: - tutti qui: e via, e via, e via; l’uno dietro l’altro, come pecore senza ragione.
- A questo modo, - disse Agnese, - anche loro potrebbero dir lo stesso di noi.
- Chetatevi un po’, - disse don Abbondio: - ché già le chiacchiere non servono a nulla. Quel ch’è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel che vorrà la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona.
Ma fu ben peggio quando, all’entrata della valle, vide un buon posto d’armati, parte sull’uscio d’una casa, e parte nelle stanze terrene: pareva una caserma. Li guardò con la coda dell’occhio: non eran quelle facce che gli era toccato a vedere nell’altra dolorosa sua gita, o se ce n’era di quelle, erano ben cambiate; ma con tutto ciò, non si può dire che noia gli desse quella vista. “Oh povero me! - pensava: - ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol fare il re, lui? Oh povero me! In circostanze che si vorrebbe potersi nasconder sotto terra, e costui cerca ogni maniera di farsi scorgere, di dar nell’occhio; par che li voglia invitare!”
- Vede ora, signor padrone, - gli disse Perpetua, - se c’è della brava gente qui, che ci saprà difendere. Vengano ora i soldati: qui non sono come que’ nostri spauriti, che non son buoni che a menar le gambe [1].
- Zitta! - rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: - zitta! che non sapete quel che vi dite. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette all’ordine questo luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze; perché tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada. Oh povero me! Basta, vedrò se ci sarà maniera di mettersi in salvo su per queste balze. In una battaglia non mi ci colgono oh! in una battaglia non mi ci colgono.
- Se ha poi paura anche d’esser difeso e aiutato... - ricominciava Perpetua; ma don Abbondio l’interruppe aspramente, sempre però a voce bassa: - zitta! E badate bene di non riportare questi discorsi. Ricordatevi che qui bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quello che si vede.
Alla Malanotte, trovarono un altro picchetto d’armati, ai quali don Abbondio fece una scappellata, dicendo intanto tra sé: “ohimè, ohimè: son proprio venuto in un accampamento!” Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio pagò in fretta, e licenziò il condottiere [2]; e s’incamminò con le due compagne per la salita, senza far parola. La vista di que’ luoghi gli andava risvegliando nella fantasia, e mescolando all’angosce presenti, la rimembranza di quelle che vi aveva sofferte l’altra volta. E Agnese, la quale non gli aveva mai visti que’ luoghi, e se n’era fatta in mente una pittura fantastica che le si rappresentava ogni volta che pensava al viaggio spaventoso di Lucia, vedendoli ora quali eran davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle crudeli memorie. - Oh signor curato! - esclamò: - a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada!
- Volete stare zitta? donna senza giudizio! - le gridò in un orecchio don Abbondio: - son discorsi codesti da farsi qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna che ora nessun vi sente; ma se parlate in questa maniera...
- Oh! - disse Agnese: - ora che è santo...!
- State zitta, - le replicò don Abbondio: - credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a ringraziarlo del bene che v’ha fatto.
- Oh! per questo, ci avevo già pensato: che crede che non le sappia un pochino le creanze?
- La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne. E intendetela bene tutt’e due, che qui non è luogo da far pettegolezzi, e da dir tutto quello che vi può venire in testa. E casa d’un gran signore, già lo sapete: vedete che compagnia c’è d’intorno: ci vien gente di tutte le sorte; sicché, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c’è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai.
- Fa peggio lei con tutte codeste sue... - riprendeva Perpetua.
Ma: - zitta! - gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello in fretta, e fece un profondo inchino: ché, guardando in su, aveva visto l’innominato scender verso di loro. Anche questo aveva visto e riconosciuto don Abbondio; e affrettava il passo per andargli incontro.
- Signor curato, - disse, quando gli fu vicino, - avrei voluto offrirle la mia casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle esser utile in qualche cosa.
- Confidato [3] nella gran bontà di vossignoria illustrissima, - rispose don Abbondio, - mi son preso l’ardire di venire, in queste triste circostanze, a incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la libertà di menar compagnia. Questa è la mia governante...
- Benvenuta, - disse l’innominato.
- E questa, - continuò don Abbondio, - è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella... di quella...
- Di Lucia, - disse Agnese.
- Di Lucia! - esclamò l’innominato, voltandosi, con la testa bassa, ad Agnese. - Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui... da me... in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione.
- Oh giusto! - disse Agnese: - vengo a incomodarla. Anzi, - continuò, avvicinandosegli all’orecchio, - ho anche a ringraziarla... [4]
L’innominato troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia; e sapute che l’ebbe, si voltò per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece, malgrado la loro resistenza cerimoniosa. Agnese diede al curato un’occhiata che voleva dire: veda un poco se c’è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a dar pareri.
- Sono arrivati [5] alla sua parrocchia? - gli domandò l’innominato.
- No, signore, che non gli ho voluti aspettare que’ diavoli, - rispose don Abbondio. - Sa il cielo se avrei potuto uscir vivo dalle loro mani, e venire a incomodare vossignoria illustrissima.
- Bene, si faccia coraggio, - riprese l’innominato: - ché ora è in sicuro. Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.
- Speriamo che non vengano, - disse don Abbondio. - E sento, - soggiunse, accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, - sento che, anche da quella parte, giri un’altra masnada di gente [6], ma... ma...
- E vero, - rispose l’innominato: - ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.
“Tra due fuochi, - diceva tra sé don Abbondio: - proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo!”
Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell’edifizio situata sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere a un precipizio. Gli uomini alloggiavano ne’ lati dell’altro cortile a destra e a sinistra, e in quello che rispondeva sulla spianata. Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall’uno all’altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù. Nel quartiere degli uomini, c’erano alcune camere destinate agli ecclesiastici che potessero capitare. L’innominato v’accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne il possesso.
Ventitre o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un movimento continuo, in una gran compagnia, e che ne’ primi tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse giorno, che non si desse all’armi [7]. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là. A ogni avviso, l’innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov’era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera d’uomini armati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz’armi. Le più volte non erano che foraggieri [8] e saccheggiatori sbandati, che se n’andavano prima d’esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l’innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s’eran riuniti, e andavano a gettarsi all’improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l’esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte. L’innominato fece un breve discorso a’ suoi uomini, e li condusse al paesetto.
Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n’andarono in fretta, senz’aspettarsi l’uno con l’altro, dalla parte dond’eran venuti. L’innominato gl’inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto [9], stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.
Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di condizione, di costumi, di sesso e d’età, non nacque mai alcun disordine d’importanza. L’innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura che ognuno metteva nelle cose di cui s’avesse a rendergli conto.
Aveva poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si trovavan tra i ricoverati, d’andare in giro e d’invigilare anche loro. E più spesso che poteva, girava anche lui, e si faceva veder per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di chi s’era in casa, serviva di freno a chi ne potesse aver bisogno. E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di congiunti o d’amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione.
C’era però anche de’ capi scarichi [10], degli uomini d’una tempra più salda e d’un coraggio più verde, che cercavano di passar que’ giorni in allegria. Avevano abbandonate le loro case, per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c’era rimedio, né a figurarsi e a contemplar con la fantasia il guasto che vedrebbero pur troppo co’ loro occhi. Famiglie amiche erano andate di conserva [11], o s’eran ritrovate lassù, s’eran fatte amicizie nuove; e la folla s’era divisa in crocchi, secondo gli umori e l’abitudini. Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle, dove in quella circostanza, s’eran rizzate in fretta osterie: in alcune, i bocconi erano alternati co’ sospiri, e non era lecito parlar d’altro che di sciagure: in altre, non si rammentavan le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarci. A chi non poteva o non voleva farsi le spese, si distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole ch’eran servite ogni giorno, per quelli che il padrone vi aveva espressamente invitati; e i nostri eran di questo numero.
Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto essere impiegate ne’ servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo spendevano una buona parte della giornata; il resto nel chiacchierare con certe amiche che s’eran fatte, o col povero don Abbondio. Questo non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava però; la paura gli teneva compagnia. La paura proprio d’un assalto, credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli dava meno fastidio; perché, pensandoci appena appena, doveva capire quanto poco fosse fondata. Ma l’immagine del paese circonvicino inondato, da una parte e dall’altra, da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in giro, un castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevan nascere ogni momento in tali circostanze, tutto gli teneva addosso uno spavento indistinto, generale, continuo; lasciando stare il rodìo che gli dava il pensare alla sua povera casa. In tutto il tempo che stette in quell’asilo, non se ne discostò mai quanto un tiro di schioppo, né mai mise piede sulla discesa: l’unica sua passeggiata era d’uscire sulla spianata, e d’andare, quando da una parte e quando dall’altra del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, per istudiare se ci fosse qualche passo un po’ praticabile, qualche po’ di sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso d’un serra serra [12]. A tutti i suoi compagni di rifugio faceva gran riverenze o gran saluti, ma bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente era con le due donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e che lo svergognasse anche Agnese. A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, sentiva le nuove del terribile passaggio, le quali arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che da principio aveva voluto restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto salvar nulla, e a un bisogno anche malconcio: e ogni giorno c’era qualche nuova storia di sciagura. Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan [13] tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d’alcuni si raccontavan l’imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, il tale reggimento si spandeva ne’ tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d’aver informazione, e si teneva il conto de’ reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein [14], passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo [15]. Lo squadron volante de’ veneziani [16] finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero. Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d’autunno, si vede dai palchi fronzuti d’un grand’albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s’erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda all’esercito. Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s’indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d’entrare in casa a portar via il resto; quando si trattava d’assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; meno che l’imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto la testa.
Il giorno fissato per la partenza, l’innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese. E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de’ vecchi.
- Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia... - le disse in ultimo: - già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei.
Volle poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl’immagini il lettore. Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s’eran visti lanzichenecchi.
- Ah signor curato! - disse il sarto, dandogli di braccio a rimontare in carrozza: - s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte.
Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati [17] gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina.
Con queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l’aspettativa di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; e trovarono infatti quello che s’aspettavano.
Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch’era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo [18] e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que’ nuovi ruspi, diceva tra sé: “son caduta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d’esser caduta in piedi”.
Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all’uscio di cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la porcheria che copre il pavimento; e dànno un’occhiata in giro. Non c’era nulla d’intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C’era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole [19], di farne de’ preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.
- Ah porci! - esclamò Perpetua. - Ah baroni! [20] - esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr’uscio che metteva nell’orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d’arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt’e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch’ebbero ben gridato, tutt’e due col braccio teso, e con l’indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que’ giorni, era difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.
Per giunta poi, quel disastro fu una semenza d’altre questioni molto noiose; perché Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de’ soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo. Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio; giacché la sua roba era in mano di birboni, cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.
- Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose, - diceva. - Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce, perché m’è stata spogliata la casa?
- Se lo dico, - rispondeva Perpetua, - che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.
- Ma vedete se codesti sono spropositi da dirsi! - replicava don Abbondio: - ma volete stare zitta?
Perpetua si chetava, ma non subito subito; e prendeva pretesto da tutto per riprincipiare. Tanto che il pover’uomo s’era ridotto a non lamentarsi più, quando trovava mancante qualche cosa, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno; perché, più d’una volta, gli era toccato a sentirsi dire: - vada a chiederlo al tale che l’ha, e non l’avrebbe tenuto fino a quest’ora, se non avesse che fare con un buon uomo.
Un’altra e più viva inquietudine gli dava il sentire che giornalmente continuavano a passar soldati alla spicciolata, come aveva troppo bene congetturato; onde stava sempre in sospetto di vedersene capitar qualcheduno o anche una compagnia sull’uscio, che aveva fatto raccomodare in fretta per la prima cosa, e che teneva chiuso con gran cura; ma, per grazia del cielo, ciò non avvenne mai. Né però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopraggiunse.
Ma qui lasceremo da parte il pover’uomo: si tratta ben d’altro che di sue apprensioni private, che de’ guai d’alcuni paesi, che d’un disastro passeggiero.

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Note
A scappare.
Il conducente del calesse.
Confidando, avendo fiducia.
Agnese ringrazia l'innominato per i cento scudi donati.
I lanzichenecchi.
I cappelletti, i mercenari slavi della Repubblica Veneta.
Che non si desse l'allarme.
Soldati incaricati di procurare il foraggio per i cavalli e le vettovaglie per l'esercito.
Dato agli uomini l'ordine di fermarsi.
Uomini senza troppe preoccupazioni.
Insieme.
Di uno scontro, di una battaglia.
Passavano al setaccio, esaminavano.
Albrecht von Wallenstein (1583-1634), celebre generale boemo che fu tra i protagonisti della Guerra dei Trent'anni (Manzoni lo cita anche nei capp. V e XXVIII). Come detto nel cap. XXVIII, il suo reggimento scende in Lombardia al comando di un suo luogotenente, non di lui in persona.
Il passaggio dei lanzichenecchi è descritto attraverso la rassegna dei comandanti dell'esercito imperiale: tra questi il belga Jean de Merode (1589-1633), Ernesto Montecuccoli (1582-1633, zio del più celebre Raimondo autore di trattari militari), Johann Altringer (1588-1634, luogotenente di Rambaldo di Collalto e artefice del sacco di Mantova), Egon di Fürstenberg (1588-1635, feldmaresciallo imperiale), Rodolfo di Colloredo (1585-1657, nobile friulano e governatore di Praga), Torquato Conti (1591-1636, nobile romano e duca di Guadagnolo, noto per la sua ferocia), Matthias Gallas (1584-1647, trentino di nascita, fu luogotenente di Collalto e sostituì Wallenstein dopo la sua morte).
I cappelletti già citati in precedenza.
Coi rami tronchi.
Un falegname.
Le facciòle erano le due strisce di tela bianca che sporgevano dal colletto dei sacerdoti cattolici.
Baroni sta per bricconi, furfanti.

Fonte: https://promessisposi.weebly.com/capitolo-xxx.html

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