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Capitolo XIX


"Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome,
né un titolo, e nemmeno una congettura
sopra nulla di tutto ciò. Fare ciò ch'era vietato dalle leggi,
o impedito da una forza qualunque; esser arbitro,
padrone degli affari altrui, senz'altro interesse
che il gusto di comandare; esser temuto da tutti,
aver la mano da coloro ch'eran soliti averla dagli altri;
tali erano state in ogni tempo
le passioni principali di costui..."

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I Promessi Sposi
 · 2 Apr 2018
A. Gastaldi, L'innominato (1860)
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A. Gastaldi, L'innominato (1860)

Personaggi: Padre Cristoforo, don Rodrigo, il Griso, l'innominato, il conte zio, il padre provinciale dei cappuccini, bravi

Luoghi: Il paese di Renzo e Lucia, Milano, il palazzotto di don Rodrigo, Pescarenico

Tempo: Novembre 1628

Temi: La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione

Trama: Il conte zio convince il padre provinciale dei cappuccini a trasferire padre Cristoforo da Pescarenico. Il frate lascia il convento. Ritratto dell'innominato, cui don Rodrigo ha deciso di rivolgersi. Il signorotto si reca al suo castello in compagnia dei bravi e del Griso.


Considerazioni dell'autore sul conte zio

L'autore propone una similitudine per spiegare l'atteggiamento del conte zio, dicendo che come non è possibile capire da dove provenga un'erbaccia nata in un campo mal coltivato, così non si può dire se l'idea di rivolgersi al padre provinciale dei cappuccini sia venuta spontaneamente all'uomo politico, oppure vi sia stata indotta dal suggerimento del conte Attilio. Certo il nipote non l'ha detto a caso e si aspettava che lo zio sarebbe ricorso a quel mezzo, tanto più che esso è del tutto confacente all'indole del funzionario di Stato così incline ai maneggi politici: d'altro canto egli vuol preservare l'onore e il buon nome del casato, impedendo a don Rodrigo di prendere una soddisfazione su padre Cristoforo con un gesto clamoroso che, oltre ad essere pericoloso, potrebbe sollevare uno scandalo. Sarebbe poi inutile imporre al nipote di allontanarsi per un po' dal paese, dal momento che ciò verrebbe interpretato come un'ammissione di sconfitta, mentre è chiaro che l'ordine dei cappuccini non cederebbe di fronte a un'intimidazione del potere politico rispetto al quale è del tutto indipendente. Il conte zio decide perciò di rivolgersi al padre provinciale, per ottenere l'allontanamento di Cristoforo dal convento in base ai poteri del prelato.

F. Gonin, il banchetto del conte zio
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F. Gonin, il banchetto del conte zio

Il conte zio invita a pranzo il padre provinciale

Il conte zio conosce il padre provinciale in modo superficiale, tuttavia tra i due c'è un rapporto basato sul reciproco ossequio e, del resto, è più facile avere a che fare con un personaggio potente che ha molti individui sotto di sé, poiché egli è più portato a vedere le implicazioni politiche di ogni situazione ed è quindi più incline all'arte sottile del compromesso. Un giorno il conte zio invita il prelato a pranzo e lo fa sedere a una tavolata i cui commensali sono stati scelti con estrema cura: parenti titolati, che col loro atteggiamento di superiorità ricordano all'interlocutore la loro grandezza aristocratica, e clienti legati al padrone di casa da antichi legami di servilismo, abituati ad assentire come cortigiani a qualunque cosa egli dica durante il pranzo.
Nel corso del banchetto il conte zio è abile a far cadere il discorso su Madrid, la capitale del regno di Spagna dove lui si vanta di essere di casa, parlando a lungo della corte, del conte-duca, del governo, delle corride cui ha assistito da un posto distinto della residenza dei reali. Tutti i convitati ascoltano i racconti del padrone di casa, finché questi inizia a parlare col padre provinciale che gli siede accanto, il quale, dopo averlo sentito per un po', cambia argomento e inizia a discorrere del cardinal Barberini, cappuccino e fratello di papa Urbano VIII, cosicché anche l'uomo politico deve tacere e ascoltare l'interlocutore come impone la regola della conversazione. Alla fine del pranzo il conte zio invita il padre ad appartarsi con lui in un'altra stanza, per parlargli da solo a solo.

F. Gonin, Il conte zio a colloquio col prelato
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F. Gonin, Il conte zio a colloquio col prelato

Il conte zio fa sedere con ogni riguardo il padre provinciale, quindi entra subito in argomento accennando con fare serio a una questione che sarebbe opportuno chiudere senza troppo rumore, chiedendo poi al prelato se nel convento di Pescarenico vi sia un padre chiamato Cristoforo. Il prelato accenna di sì e l'uomo politico inizia a parlare del frate come di un soggetto turbolento, che è come un figlio degenere nella grande famiglia dei cappuccini e, ne è certo, ha dato da pensare al padre provinciale. Questi dal canto suo comprende che il conte zio vuole coinvolgerlo in una briga e si rammarica di aver lasciato padre Cristoforo troppo tempo in un convento di campagna, invece di spostarlo di frequente per evitare che si scontrasse con dei nobili. Il prelato tenta di difendere la reputazione del frate, al che il conte zio lo informa che Cristoforo proteggeva Renzo Tramaglino, uno dei rivoltosi coinvolto nel tumulto di S. Martino a Milano: il padre accusa il colpo, ma difende ancora Cristoforo ricordando che compito dei frati è appunto quello di prendersi cura degli uomini traviati, argomento cui il conte ribatte che la questione è assai delicata e adombra la possibilità che il prelato possa ricevere delle pressioni addirittura da Roma. L'uomo di Stato rincara la dose ricordando con malizia il passato turbolento del frate e aggiungendo che, probabilmente, l'uomo non ha perso le sue antiche abitudini, dal momento che di recente egli è venuto a scontrarsi nientemeno che con suo nipote don Rodrigo, cosa della quale il prelato non può che rammaricarsi sinceramente.

F. Gonin, Le aderenze del conte zio
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F. Gonin, Le "aderenze" del conte zio

Il colloquio col padre provinciale: allusioni al prestigio della casata

Il padre provinciale deplora il fatto che padre Cristoforo abbia provocato in qualche modo don Rodrigo, dicendosi pronto a prendere i provvedimenti del caso qualora il frate avesse sbagliato, ma il conte zio ribadisce che sarebbe assai meglio chiudere la faccenda senza schiamazzi, onde evitare conseguenze che potrebbero coinvolgere altre persone. Don Rodrigo, osserva il conte, è giovane e anche il frate dimostra ancora le inclinazioni di un giovane, per cui tocca a loro trovare una soluzione approfittando della loro veneranda età (nel dir questo, il conte zio smette per un attimo di fingere e assume un'espressione di rara sincerità nel colloquio). L'uomo politico propone al prelato di stroncare la cosa sul nascere, allontanando il frate dal convento per evitare che "la paglia prenda fuoco", anche alla luce dei rapporti sospetti tra Cristoforo e un pericoloso ricercato come Renzo. Il provinciale è in cuor suo rammaricato di dover prendere un partito del genere e tenta debolmente di opporre qualche obiezione, cui il conte zio è abile a ribattere che lo scontro tra il frate e don Rodrigo potrebbe coinvolgere l'intera famiglia e in tal caso l'affare diventerebbe serio, poiché il casato del conte zio può vantare delle aderenze politiche che, come il prelato non manca di riconoscere, sono cospicue. C'entra il puntiglio cavalleresco e queste cose, ricorda il conte zio, non si sa mai dove vanno a finire: anche i padri cappuccini hanno parenti nel mondo aristocratico e questi potrebbero intervenire nella disputa, il che scatenerebbe conseguenze imprevedibili.

F. Gonin, La fine del colloquio
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F. Gonin, La fine del colloquio

La conclusione del colloquio: il prelato è convinto a trasferire Cristoforo

Il padre provinciale inizia a cedere, dicendo che padre Cristoforo è predicatore e ne servirebbe uno in un'altra città, anche se è riluttante all'idea di prendere un provvedimento che potrebbe apparire una punizione: il conte zio ribatte che la cosa sarebbe piuttosto un atto di convenienza politica per l'ordine, al che il prelato esprime il timore che don Rodrigo potrebbe intendere comunque la cosa come una vittoria personale e vantarsene nel paese, cosa che nuocerebbe al prestigio dei cappuccini. L'uomo politico minimizza la questione affermando che il nipote non saprà nulla nei dettagli, mentre la gente del paese non troverà strano che un frate venga spostato in un altro convento; il prelato, dal canto suo, chiede che don Rodrigo compia qualche gesto di amicizia verso l'ordine, cosa che il conte dà per scontata in quanto, a suo dire, il rispetto per i padri cappuccini è un'abitudine inveterata della famiglia (anche se, afferma, glielo suggerirà con prudenza, perché non comprenda quello che i due hanno concordato). Il conte zio si augura che il trasferimento di padre Cristoforo avvenga prima possibile e, auspicabilmente, che venga inviato molto lontano, cosa che il prelato non esclude in quanto gli è stato appunto richiesto un predicatore in quel di Rimini. Il conte zio approva e sollecita il provinciale ad affrettare quanto più può la rimozione di Cristoforo da Pescarenico, quindi pone fine al colloquio e accompagna il prelato fuori della sala, non prima di avergli rivolto molti cerimoniosi complimenti e non senza cedergli il passo prima di uscire dalla porta, per sottolineare il suo rispetto verso di lui. I due si riuniscono poi al resto degli invitati.

F. Gonin, Cristoforo lascia Pescarenico
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F. Gonin, Cristoforo lascia Pescarenico

Padre Cristoforo lascia il convento

L'arte diplomatica del conte zio ha sortito i suoi effetti, dacché l'uomo politico è riuscito a fare andare padre Cristoforo da Pescarenico fino a Rimini, viaggio che l'autore definisce ironicamente "una bella passeggiata". Infatti, poche sere dopo un cappuccino di Milano giunge al convento e consegna un plico al padre guardiano, ovvero l'ordine in base al quale padre Cristoforo deve recarsi a Rimini dove predicherà la Quaresima, unitamente al comando di troncare ogni affare in atto nel paese e di non tenere più alcun contatto con le persone che vi abitano (il frate che ha recato la lettera accompagnerà Cristoforo nel lungo viaggio). Il padre guardiano non dice nulla al frate sul momento, mentre il mattino dopo lo fa chiamare e gli mostra la lettera, ordinandogli di prendere sporta, bastone e sudario per mettersi subito in marcia alla volta di Rimini: l'uomo si rammarica di dover abbandonare i suoi protetti, Renzo, Lucia, Agnese, poi però si pente della sua presunzione e si raccomanda alla Provvidenza divina, certo che essa saprà aggiustare le cose anche in sua assenza. Padre Cristoforo china la testa di fronte al padre guardiano in atto di ubbidienza, prende tutte le sue cose (incluso il "pane del perdono") e lascia il convento dopo aver salutato i confratelli, insieme al frate latore della lettera.

F. Gonin, L'innominato
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F. Gonin, L'innominato

Ritratto dell'innominato: la gioventù e gli inizi come bandito

Come detto nel capitolo precedente, per venire a capo della sua impresa don Rodrigo ha deciso di chiedere l'aiuto di un uomo famigerato, del quale l'autore non è in grado di dire né il nome né il titolo, e neppure dare una vaga idea della sua identità (si tratta infatti dell'innominato): il personaggio non è indicato chiaramente neppure dagli storici dell'epoca, probabilmente per evitare vendette da parte di quell'uomo dalla fama terribile. L'autore cita la testimonianza di scrittori quali Francesco Rivola e Giuseppe Ripamonti, che parlano del personaggio anche in attinenza col cardinal Borromeo, ma senza farne mai il nome e limitandosi a descriverlo come un potente bandito mandante ed esecutore di spietati delitti, che si faceva beffe della legge e della giustizia vivendo trincerato in un imprendibile castello situato lungo il confine dei due Stati, milanese e veneto. L'autore ricorda che costui fin dall'adolescenza ha gareggiato coi tiranni della sua città (Milano) e della sua regione, mettendosi di traverso alle loro trame e riuscendo in molti casi a vincerli o a farli divenire suoi amici subordinati, essendo tra l'altro superiore a molti di loro per ricchezza e amicizie e a tutti per coraggio e temerarietà. Poco a poco gli altri signori iniziano a rivolgersi a lui per avere il suo aiuto nelle loro imprese scellerate, aiuto che l'innominato non nega ma, anzi, concede con generosità, per non venir meno alla fama oscura di cui è ormai circondato: commette una serie spaventosa di delitti e di atrocità tali che neppure la sua potente famiglia o le amicizie altolocate possono più proteggerlo e, alla fine, deve uscire dallo Stato in seguito a un bando.

L'innominato lascia la sua città (ed. 1840)
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L'innominato lascia la sua città (ed. 1840)

Ritratto dell'innominato: il ritorno nello Stato e al suo castello

Il modo in cui l'innominato lascia Milano è degno del personaggio, dal momento che egli attraversa la città a cavallo a suon di tromba e con un seguito di cani, passando davanti al palazzo del governatore al quale lancia degli insulti infamanti. Durante il periodo del bando egli non interrompe i contatti con i suoi amici e continua le sue attività criminose, compiendo nuovi omicidi anche su mandato di principi stranieri, in una trama sempre più oscura di delitti e segrete alleanze; e dopo qualche tempo torna nello Stato, o perché il bando è stato revocato in seguito a pressioni di uomini potenti, o semplicemente perché l'innominato è talmente temuto che può farsi beffe di tutto ciò che riguarda la legge o la giustizia. Tuttavia non torna a Milano ma si stabilisce in un castello situato al confine con il Bergamasco, allora appartenente alla Repubblica di Venezia, da dove il bandito continua una girandola sinistra di delitti e assassini circondato da una schiera di sgherri e bravi senza scrupoli. Tutti i signori che vivono nel territorio tra i due Stati controllato dall'innominato devono scendere a patti con lui, giacché i pochi che hanno tentato di resistergli sono finiti male (chi chiede il suo aiuto in qualche impresa scellerata, dunque, è praticamente certo di spuntarla). Si rivolgono a lui anche persone che hanno ragione in qualche controversia, al fine di ottenere il suo aiuto prima dei loro avversari, e spesso dei deboli oppressi hanno invocato il suo intervento contro la prepotenza di qualche signorotto locale, ottenendo soddisfazione e diventando suoi debitori. Così facendo e operando tanto al servizio del bene, quanto, più spesso, del male, l'innominato si circonda di una fama sinistra e il suo nome è pronunciato sempre con un'aura di terrore, venendo spesso associato a racconti truculenti che, talvolta, si arricchiscono di particolari leggendari. È tale la sua reputazione di brigante e assassino che, spesso, alcuni delitti rimasti impuniti gli vengono attribuiti senza alcuna prova, mentre la gente crede che egli abbia suoi sicari e sgherri disseminati ovunque, esercitando un potere praticamente illimitato sul territorio che controlla.

F. Gonin, Don Rodrigo va dall'innominato
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F. Gonin, Don Rodrigo va dall'innominato

Don Rodrigo si reca al castello dell'innominato

Dal castello dell'innominato al palazzotto di don Rodrigo non ci sono più di sette miglia e il signorotto non ha tardato a rendersi conto che, per esercitare la sua tirannia sul proprio territorio, doveva diventare amico del potente bandito: egli gli ha reso imprecisati servizi in passato e ne ha ricevuto in cambio promesse di aiuto, anche se il nobile fa di tutto per tenere nascosta la sua aderenza a un personaggio dalla fama tanto sinistra. Infatti don Rodrigo non vuole rompere i rapporti con la società civile, vuole godersi i piaceri della vita cittadina e per questo tiene in debita considerazione i parenti, la legge, la protezione delle persone potenti e altolocate; la vicinanza a un uomo di quel tipo, nemico dichiarato di ogni potere pubblico e perciò da tutti temuto, non gli fa buon gioco, specie nei riguardi di un parente importante come il conte zio. Così una mattina don Rodrigo lascia il suo palazzo a cavallo, come se andasse a una battuta di caccia, accompagnato dal Griso e da altri quattro bravi armati fino ai denti, diretto al castello dell'innominato.


Temi principali e collegamenti


- Il capitolo è diviso in due parti, la prima delle quali mostra le trame con cui il conte zio fa in modo di allontanare padre Cristoforo da Pescarenico, mentre la seconda è dedicata al ritratto dell'innominato, il personaggio che entrerà in scena nel cap. XX e che svolgerà un ruolo centrale nelle successive vicende del romanzo. L'episodio si concentra interamente sulle trame dei "malvagi" per ottenere i loro scopi, infatti gli unici personaggi principali che vi compaiono sono padre Cristoforo e don Rodrigo, sia pure attraverso rapidi cenni.

- Il colloquio tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini è un piccolo capolavoro di retorica, che mostra i giri di parole, le allocuzioni, le insinuazioni e l'arte della simulazione di cui si sostanzia la politica, cosa che Manzoni naturalmente condanna (si veda oltre). L'autore mostra in azione l'uomo politico e gli fa esprimere tutte le qualità negative che aveva descritte nella sua presentazione avvenuta nel cap. XVIII, prima dell'incontro col conte Attilio.

- Padre Cristoforo accetta con rassegnazione e umiltà l'ordine di lasciare Pescarenico, rammaricandosi di non poter più aiutare i suoi protetti ma confidando nell'aiuto di Dio del quale lui è stato un semplice esecutore: non riapparirà più nelle vicende del romanzo, sino al cap. XXXV quando Renzo lo troverà al lazzaretto durante la peste, dove ha chiesto di essere mandato per accudire i malati (ci verrà detto che il conte zio, nel frattempo, è morto). Il frate lascia il convento portando con sé il "pane del perdono", nominato nel cap. IV e simbolo del perdono ottenuto dal fratello dell'uomo da lui ucciso durante il duello. Ovviamente la sequenza che narra la sua partenza, così come il dialogo tra il conte zio e il padre provinciale, è un flashback rispetto al colloquio tra Agnese e fra Galdino nel cap. XVIII.

- La seconda parte del capitolo è quasi interamente dedicata al ritratto dell'innominato, il potente bandito la cui identità non viene rivelata ma che certamente adombra la figura storica di Francesco Bernardino Visconti: l'autore traccia la sua biografia facendo risaltare la sua sinistra grandiosità e sottolineando nel finale la differenza tra lui e don Rodrigo, malvagio di mezza tacca che ricorre al suo aiuto per riuscire a spuntarla in un'impresa troppo rischiosa, ma che non tiene a pubblicizzare la sua amicizia col famoso criminale in quanto desideroso di avere dalla sua parte i poteri pubblici e la giustizia. Tale differenza risulterà ancor più evidente nei successivi capitoli, specie dopo la clamorosa conversione dell'innominato (per approfondire: L. Russo,Don Rodrigo).

- L'innominato compariva già nel Fermo e Lucia, col nome però di Conte del Sagrato che gli era stato affibbiato dopo il brutale omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa: l'episodio era descritto con ampiezza di particolari macabri e nella redazione definitiva del romanzo è stato eliminato (cfr. il brano L'assassinio sul sagrato).

L'Escurial di Madrid (stampa XVII sec.)
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L'Escurial di Madrid (stampa XVII sec.)

Il conte zio e il padre provinciale, due "potestà" a confronto

Il colloquio fra il conte zio e il padre provinciale è una delle pagine più famose del romanzo ed è anche l'unico episodio (se si eccettua il breve dialogo in carrozza tra Ferrer e il vicario di Provvisione dopo il salvataggio di quest'ultimo) in cui vediamo il confronto tra due personaggi di alto rango che occupano rilevanti posizioni di potere, impegnati in una "trama" che porterà al compiersi di una grave ingiustizia contro padre Cristoforo e favorirà indubbiamente i disegni criminosi di don Rodrigo riguardo a Lucia. Il brano è interessante anche perché mostra il conte zio all'opera e offre un saggio di quelle sue capacità politiche di persuasione cui l'autore aveva accennato nel cap. XVIII, presentandolo prima del suo incontro col conte Attilio: egli rappresenta tutte le caratteristiche negative che il Manzoni condanna nella politica e viene descritto come un maestro nell'arte di simulare e dissimulare, specie nel modo ambiguo e allusivo con cui accenna alle possibili conseguenze del contrasto fra il nipote e padre Cristoforo, per esercitare una pressione anche psicologica sul padre provinciale e indurlo ad accogliere la sua richiesta (il prelato è del resto uomo di potere anche lui ed è quindi sensibile al linguaggio e alla logica "politica" sottesa al discorso del funzionario di Stato). D'altro canto l'azione del conte zio è attentamente preordinata e tutto è funzionale a raggiungere il suo intento, a cominciare dal banchetto offerto in onore del padre provinciale che viene allestito come una manifestazione pubblica del potere e dell'influenza della sua famiglia, poiché i commensali formano una "corona" di personaggi titolati che devono ispirare un sentimento di superiorità sull'illustre ospite e porlo nella condizione di ricevere con maggior facilità le successive pressioni. Come già visto in altri momenti del romanzo, il banchetto diventa un'occasione "scenografica" per ostentare ricchezza e opulenza, infatti il padrone di casa è abile a far cadere il discorso sulla corte madrilena dove lui è di casa ed è benevolmente accolto dai dignitari spagnoli e dal conte-duca in persona, parole che vogliono suggerire implicitamente l'idea che il potere laico è superiore a quello ecclesiastico ("A Roma si va per più strade, a Madrid... per tutte"), anche se il prelato rilancia parlando del card. Barberini che è cappuccino e fratello di papa Urbano VIII, al che il conte zio deve rinunciare a monopolizzare la conversazione come aveva fatto fino a quel momento. Il pranzo è la fase preliminare che precede la "partita" vera e propria che si svolgerà di lì a poco tra i due contendenti, che si appartano in un'altra sala e si preparano a un confronto con le armi sottili della dialettica, non senza una fine ironia da parte dell'autore ("Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo", frasi che esprimono i complimenti cerimoniosi che i due si scambiano e che però non corrispondono alla reale opinione che ognuno ha dell'altro, specie il prelato il cui pensiero verrà più volte svelato nel dialogo).
Fin dall'inizio è chiaro che il conte zio intende forzare il padre provinciale ad accogliere la sua richiesta di trasferire fra Cristoforo e per indurlo a ciò ricorre a tre argomenti decisivi nel mettere in cattiva luce il cappuccino, ovvero la sua "protezione" al famoso sovversivo e ricercato Renzo Tramaglino, il suo passato non limpido di laico, il suo contrasto con don Rodrigo in cui è insinuato un movente di natura passionale. I tre argomenti sono presentati in momenti successivi e secondo un ordine crescente di gravità, in base a una strategia dialettica che mira a mettere in difficoltà il prelato e non dargli modo di eludere la richiesta: infatti il padre oppone delle obiezioni alle prime due accuse, dicendo che è compito dei frati occuparsi dei "traviati" e che, nonostante il passato turbolento, l'abito monacale ha avviato Cristoforo a una vita nuova, ma il conte zio ribatte accentuando la gravità dei fatti di S. Martino e adombrando la possibilità che sia fatto "qualche passo a Roma" (in modo allusivo e vagamente minatorio: "non so niente..."), mentre insinua che il frate non abbia cambiato le abitudini giovanili, anche se ricorre in modo un po' goffo a un proverbio fuori luogo per evitare quello, più offensivo, secondo cui "il lupo cambia il pelo, ma non il vizio". La carta vincente è tuttavia il contrasto tra il frate e don Rodrigo, che infatti il conte zio cala per ultima e sortisce il suo effetto sul prelato, che commenta con una triplice esclamazione ("questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero"), poiché si rende conto che tale conflitto implica conseguenze sul piano del "punto d'onore", sul sistema di valori nobiliari cui egli è sensibile, oltre a incrinare gli equilibri tra potere laico ed ecclesiastico che devono essere salvaguardati e in nome dei quali alla fine egli dovrà sacrificare padre Cristoforo. Infatti il prelato condanna subito un "fatto simile" e si dice pronto a punire il frate qualora ciò fosse confermato, anche se il conte zio lo invita a una condotta più prudente, a risolvere la cosa tra loro senza inutili scandali e, soprattutto, senza coinvolgere altre persone della famiglia che vanta aderenze politiche "cospicue", come il padre non può fare a meno di riconoscere. L'uomo politico è abile a suggerire implicitamente che la contesa tra il frate e il nipote ha origine da un fatto passionale (la definisce una "cosa disgustosa", mentre più avanti dirà che il frate ha ancora le "inclinazioni d'un giovine"), per cui è meglio "Allontanare il fuoco dalla paglia", trasferire Cristoforo il più lontano possibile in modo da evitare ulteriori conseguenze che potrebbero essere imprevedibili ("prevedo un monte di disordini, un'Iliade di guai" e anche dopo dirà che i due hanno spento "una favilla... che poteva destare un grand'incendio"). È chiaro che da questo momento la difesa d'ufficio del frate da parte del superiore diverrà sempre meno convinta, tanto che il padre si lascia sfuggire che gli è stato richiesto un predicatore altrove (più avanti ammetterà che si tratta di Rimini, città molto lontana da Pescarenico) e obietta debolmente che ciò sembrerebbe una punizione, mentre il conte zio ribatte che si tratta in realtà di un "provvedimento prudenziale", un "ripiego di comune convenienza"; il prelato è preoccupato all'idea che don Rodrigo possa vantarsene come un successo personale, tuttavia accetta l'ipocrita assicurazione del conte zio secondo cui il nipote "non ne saprà nulla", richiedendo come contropartita un gesto di amicizia verso l'ordine dei cappuccini che, dal canto suo, l'uomo politico dà per scontato ("è un genio in famiglia", dice, mentre si è visto nei capp. V-VI qual è la considerazione che don Rodrigo riserva ai cappuccini, dunque questa è l'ennesima affermazione ipocrita con cui viene mascherata una realtà molto meno edificante).
Alla fine il padre provinciale è costretto per ragioni politiche e di salvaguardia dei rapporti col potere laico ad assecondare la richiesta del conte zio, benché gli sia molto chiaro che si tratta di un'ingiustizia (lo afferma quando pensa tra sé: "delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voialtri... il superiore deve farlo sgomberare") e abbia tentato, con indubbia generosità, di difendere Cristoforo che conosce come uomo di assoluto rigore morale, cosa che però scompare di fronte al peso politico e alle "aderenze" messe in campo dal conte e contro le quali il prelato nulla può opporre. In questa sorta di duello dialettico il vero vincitore è il conte zio, che ottiene anche il sollecito trasferimento del frate dal convento ("Presto, presto... meglio oggi che domani") e mette fine al colloquio con elogi sperticati dell'ordine e manifestazioni fin troppo cerimoniose del suo ossequio, incluso il gesto ipocrita di cedere il passo al padre prima di lasciare la stanza e che è come il rovesciamento della realtà, in cui il potere ecclesiastico ha dovuto inchinarsi di fronte alle prepotenze di quello politico e nobiliare. L'episodio è importante in quanto esempio concreto di quei "Politici maneggj" che erano già accennati dall'anonimo nell'Introduzione e che l'autore intende svelare nel corso del romanzo, in cui vengono analizzati i meccanismi perversi del potere e delle trame degli uomini che esercitano un dominio su altri uomini: Manzoni condanna la politica che non si occupa del benessere dei popoli che dovrebbe governare, ma asseconda le malefatte e i capricci dei nobili che vivono sulle spalle dei poveri e che, per assicurare loro impunità e libertà d'azione, non esita a macchiarsi di gravi ingiustizie, perpetrate con le armi affilate della diplomazia e della "comune convenienza" (il tutto in maniera decisamente ipocrita, con un perbenismo di facciata che nasconde pensieri intimi di diversa natura e un'amara consapevolezza della realtà delle cose, come nel caso del padre provinciale che deve trasferire Cristoforo anche sapendolo innocente). Il brano ha più di un'attinenza con la commedia di Ferrer di fronte alla folla di rivoltosi che volevano linciare il vicario (cap. XIII), poiché anche in quel frangente l'uomo politico recitava una parte a beneficio di un pubblico e indossava una maschera per ingannare il popolo, mentre in questo caso la "recita" del conte zio ha un interlocutore che si rende conto della sua falsità e pure non può opporsi, anzi è costretto a fingere a sua volta in modo altrettanto ipocrita, tutto in nome di una "politica" che anziché fondarsi su limpidezza e sincerità si basa sulla menzogna e sulla finzione (e non si può negare che Manzoni rivolgesse tale critica anche al potere dei suoi tempi, in accordo con la sua visione pessimistica della realtà storica).
Per approfondire: E. Donadoni, Il conte zio.

Capitolo XIX
Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio un bel lapazio [1], volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall’insinuazione d’Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall’altra parte, il ripiego era talmente adattato all’umore [2] del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l’avrebbe trovato da sé. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sé, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand’anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare [3] era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello.
Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Oualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile [4], parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca [5], de’ ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del toro [6], che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto distinto, dell’Escuriale [7] di cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno [8]. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: - stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?
Il provinciale fece cenno di sì.
- Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po’ numerose... c’è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po’ amico de’ contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.
“Ho inteso: è un impegno [9], - pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna”.
- Oh! - disse poi: - mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
- Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose... cose... Lorenzo Tramaglino!
“Ahi!” pensò il provinciale; e disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli...
- Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie...! Son cose spinose, affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so niente... e da Roma venirle...
- Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
- Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
- È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito...
- Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l’abito non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
- Ho de’ riscontri, - continuava, - ho de’ contrassegni...
- Se lei sa positivamente, - disse il provinciale, - che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.
- Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa [10], e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
- Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
- Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato...
- Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato...
- Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?...
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, - tocca a noi, - continuò, - a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta [11]. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso. “Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare”.
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, - intendo benissimo, - disse il provinciale, - quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo...
È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze...
- Cospicue.
- Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi... E poi, hanno de’ parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto più con quell’altra circostanza... Lei sa come vanno queste cose.
- Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro...
- No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.
- Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso... L’onor dell’abito... non è cosa mia... è un deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma...
- Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. - In quanto ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo... noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
- Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo... non per noi, ma per l’abito...
- Sicuro, sicuro; quest’è giusto... Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso... qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana... per levar proprio ogni occasione...
- Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi...
- Molto a proposito, molto a proposito. E quando...?
- Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
- Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
- Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
- Abbiamo spento una favilla, - disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.
Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.
Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano. C’è dentro l’obbedienza [12] per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d’affari che potesse avere avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il frate latore dev’essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario [13] e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sé: “oh Dio! cosa faranno que’ meschini, quando io non sarò più qui!” Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d’ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale [14], e il pane del perdono, s’allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da’ suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta.
Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama “un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita”, e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. “Riferirò”, dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, “il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse...” Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli [15], per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo [16], e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. “Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore”.
Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, “in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste”. Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. “Anche alcuni principi esteri, - dice, - si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini”.
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto. “Quella casa - cito ancora il Ripamonti, - era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate”. Oltre questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado [17]. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.
Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità: giacché chi ha l’assunto di provvedere, e non n’ha la volontà, o non ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo segno, a’ casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s’avviò al castello dell’innominato.

Note

1. Erba nota anche col nome di acetosella, bella in quanto piacevole alla vista ma dannosa e inutile per le colture.
2. Al carattere, all'indole.
3. I monaci e i sacerdoti.
4. La sprezzatura è la noncuranza e la naturalezza che, secondo i trattati rinascimentali di comportamento signorile, doveva osservare sempre l'uomo di corte (cfr. il Cortegiano, di B. Castiglione).
5. L'Olivares, primo ministro di re Filippo IV.
6. Le corride.
7. La residenza estiva dei sovrani spagnoli, edificata da Filippo II dopo il 1557.
8. Il card. Antonio Marcello Barberini senior (1569-1646) fu cappuccino e fratello minore di Maffeo Barberini, papa col nome di Urbano VIII (1623-1644). Il padre provinciale lo tira in ballo per mostrare al conte zio che anche lui, in quanto cappuccino, ha delle aderenze "politiche" prestigiose.
9. Una briga, una richiesta che il conte zio sta per rivolgergli.
10. Il conte zio allude in modo sibillino all'interesse di padre Cristoforo per Lucia, come del resto era stato già insinuato dal conte Attilio (cap. XVIII).
"Opponiti al principio del male (la citazione è da Ovidio, Remedia amoris, v. 91); è un'altra allusione sottile alla natura amorosa del contrasto tra il frate e don Rodrigo.
11. La lettera con l'ordine di partire per Rimini.
12. Era la fascia scapolare di lana che i frati portavano al collo quand'erano in viaggio, così detta perché serviva ad asciugare il sudore.
13. Il libro contenente le prediche della Quaresima.
14. Di contrastarli, di opporsi ai loro disegni.
15. Cedere, ritirarsi.
16. Moribondo (chi era al terzo grado della malattia della tisi era prossimo alla morte).


fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xix.html

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