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Capitolo XX

"...e si voltava, per accennar col dito;
quando l'altro compagno (era il Nibbio),
afferrandola d'improvviso per la vita,
l'alzò da terra. Lucia girò la testa
indietro atterrita, e cacciò un urlo;
il malandrino la mise per forza
nella carrozza: uno che stava
a sedere davanti, la prese e la cacciò,
per quanto lei si divincolasse e stridesse,
a sedere dirimpetto a sé..."

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I Promessi Sposi
 · 2 Apr 2018
G. Gallina, Il rapimento di Lucia
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G. Gallina, Il rapimento di Lucia

Personaggi: Lucia, Gertrude, Egidio, don Rodrigo, il Griso, l'innominato, il Nibbio, i bravi, la vecchia del castello

Luoghi: Monza, il castello dell'innominato

Tempo: Novembre 1628

Temi: La giustizia, Nobiltà e potere

Trama: Don Rodrigo si reca al castello dell'innominato e chiede il suo aiuto per rapire Lucia. L'innominato, benché già preda di dubbi e rimorsi, ottiene la complicità di Egidio, il quale persuade la riluttante Gertrude a collaborare. La monaca convince Lucia a uscire dal convento. Il Nibbio e altri bravi rapiscono la giovane e la portano al castello. L'innominato ordina a una vecchia di prendersi cura di lei.

F. Gonin, Il castello dell'innominato
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F. Gonin, Il castello dell'innominato

Il castello dell'innominato

Il castello dell'innominato sorge in una valle posta sul confine dello Stato di Milano e del Bergamasco, in cima a un colle accessibile solo da un lato e che dall'altro presenta dirupi impervi e scoscesi; sulle falde ci sono alcune casupole sparse, mentre in basso scorre un torrente che fa da confine naturale tra i due territori. Nella sua imprendibile fortezza il signore domina dall'alto l'intera valle, poiché l'unica strada percorribile si inerpica a giravolte verso l'alto ed è tale che nessuno può salirvi senza essere visto dal castello, quindi questo è una roccaforte inespugnabile (tanto più che l'innominato vive lì circondato da una guarnigione di bravi). Del resto, precisa l'autore, nessuno che non sia amico o alleato del bandito si azzarda a mettere piede in quel luogo e men che meno i birri, dopo che si sono sparse truci leggende sulla fine fatta dai pochi che hanno tentato una simile impresa. L'anonimo non fornisce alcuna notizia che consenta di identificare con precisione il luogo e don Rodrigo arriva presto ai piedi della valle, all'imbocco del tortuoso sentiero che conduce in alto e dove c'è un'osteria che funge da corpo di guardia, la quale, a dispetto dell'insegna in cui campeggia un sole splendente, viene chiamata la "Malanotte".

L'arrivo di don Rodrigo (ed. 1840)
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L'arrivo di don Rodrigo (ed. 1840)

Don Rodrigo arriva alla Malanotte

Non appena il cavallo di don Rodrigo si avvicina alla Malanotte, ne esce un ragazzaccio armato fino ai denti che rientra subito dopo ad avvisare tre bravi, intenti a giocare a carte. Uno di loro si affaccia alla porta dell'osteria e riconosce il signorotto come amico del suo padrone e questi, dopo aver risposto a un cenno di saluto, gli chiede se l'innominato si trovi al castello. Il bravo risponde di sì, quindi don Rodrigo smonta, affida lo schioppo a uno dei suoi sgherri (nessuno può salire al castello armato) e dà alcune berlinghe a un altro bravo, ordinandogli di attenderlo all'osteria; dà alcuni scudi d'oro anche ai bravi dell'innominato, poi si accinge a iniziare l'ascesa in compagnia del Griso, anch'egli disarmato.
I due sono ben presto raggiunti da un bravo dell'innominato, che li riconosce e li accompagna alla fortezza, e una volta arrivati lì il Griso rimane alla porta e il signorotto viene introdotto nel castello, condotto attraverso un intrico di corridoi bui. Don Rodrigo vede alle pareti moschetti e sciabole, mentre di guardia ad ogni stanza c'è un bravo, finché è fatto entrare in una sala dove lo attende l'innominato, che non tarda ad andargli incontro e a salutarlo.

G. Mantegazza, Don Rodrigo e l'innominato
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G. Mantegazza, Don Rodrigo e l'innominato

Colloquio tra don Rodrigo e l'innominato

L'innominato guarda il viso e le mani di don Rodrigo, cosa che fa per prudente abitudine con chiunque incontri: si presenta come un uomo alto, calvo, con pochi capelli bianchi, il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se la durezza dei lineamenti, lo sguardo vivo e la vigoria fisica sarebbero straordinari anche in un giovane. Il signorotto dice di aver bisogno dell'aiuto del potente bandito, poiché si trova in un impegno che il suo onore non gli permette di abbandonare e tuttavia non ha i mezzi per poterla spuntare da solo. L'innominato ascolta con interesse, anche perché nella vicenda è coinvolto padre Cristoforo che egli conosce come nemico dei tiranni e perciò odia a morte: don Rodrigo accentua le difficoltà dell'impresa di rapire Lucia, poiché la ragazza è protetta nel convento di Monza da Gertrude, e a un certo punto l'innominato interrompe bruscamente il colloquio e si dichiara disposto ad assumersi l'onere dell'impresa. Il bandito appunta su un taccuino il nome di Lucia e congeda frettolosamente don Rodrigo, dicendogli che di lì a poco lo avviserà di quel che dovrà fare.
L'innominato ha come complice delle sue scelleratezze Egidio, il quale, come narrato in precedenza, abita accanto al monastero di Gertrude ed è questo il motivo per cui il bandito ha dato tanto prontamente la sua parola: tuttavia, appena rimasto solo, egli si sente indispettito, se non proprio pentito di essersi addossato quell'infame incarico.

F. Gonin, I dubbi dell'innominato
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F. Gonin, I dubbi dell'innominato

I dubbi dell'innominato

Già da qualche tempo, infatti, l'innominato prova un certo fastidio per le sue malefatte e ripensa spesso ai tanti, troppi delitti commessi in passato, che formano un peso sempre più gravoso nella sua memoria; un certo orrore provato nei primi omicidi, e in seguito assopito nella sua coscienza, torna ora a farsi sentire di nuovo, inasprito dal pensiero della vecchiaia e della morte vicina. Il pericolo della morte non l'ha mai fermato nell'affrontare i nemici a viso aperto, ma ora, nella solitudine del suo castello, il pensiero di essere alla fine della sua vita lo riempie di inquietudine ed essa è aggravata dalla consapevolezza di non poter sfuggire a tale destino quando esso verrà. In passato l'abitudine alla ferocia e alla violenza lo aveva aiutato a placare le voci della coscienza, mentre ora rinasce in lui l'idea di un futuro giudizio individuale, e gli sembra di sentire la voce imperiosa di quel Dio che non si è mai preoccupato di negare o di riconoscere, quel Dio che adesso, invece, inizia a manifestarsi dentro di lui. Da giovane ha sempre respinto ogni legge morale come odiosa, mentre ora inizia a credere che essa prima o poi finirà per adempiersi; non ha rivelato a nessuno questo suo nuovo stato d'animo, ha anzi cercato quanto più possibile di nasconderlo, anche se in fin dei conti ha mentito soprattutto a se stesso. Negli ultimi tempi ha cercato di respingere questi pensieri ritrovando la gagliardia e la spensieratezza di un tempo ed è il motivo che lo ha spinto ad accettare tanto risolutamente la proposta di don Rodrigo, anche se ora è quasi tentato di venir meno alla parola data e rinunciare; per chiudere la questione decide di chiamare il Nibbio, il suo luogotenente cui affida le imprese più rischiose, e lo manda subito a Monza per riferire ad Egidio la trama che si sta delineando e chiedere il suo aiuto.

F. Gonin, Lucia e Gertrude
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F. Gonin, Lucia e Gertrude

Il coinvolgimento di Egidio. Gertrude tradisce Lucia

Il Nibbio torna ben presto da Monza con la risposta di Egidio, il quale riferisce inaspettatamente che l'impresa è facile e sicura, dunque l'innominato deve mandare una carrozza e due o tre bravi travestiti, mentre a tutto il resto penserà il giovinastro. L'innominato, nonostante la sua inquietudine interiore, ordina al Nibbio di disporre tutto secondo le istruzioni di Egidio e il bravo si unisce alla spedizione in compagnia di altri due sgherri. Egidio ovviamente non conta sui mezzi con cui abitualmente compie le sue malefatte, ma sulla presenza al convento della sua amante Gertrude, la quale, anziché costituire un ostacolo all'impresa, rappresenta per lui una preziosa risorsa. Il giovane impone alla "Signora", già coinvolta nel delitto della conversa, di sacrificare Lucia e sulle prime la monaca trova spaventosa una simile proposta, tentando in ogni modo di sottrarsi alla richiesta; tuttavia, poiché la donna non intende ribellarsi al delitto né rinnegare in modo risoluto il suo amante, finisce per obbedire alle richieste di Egidio, anche se le fa orrore il pensiero di separarsi da Lucia (cui si è affezionata) per una simile atroce malvagità.
Il giorno stabilito Gertrude si ritira nel parlatorio privato con Lucia, alla quale fa più carezze del solito, come il pastore che accompagna con dolcezza la pecora fuori della stalla per consegnarla al macellaio cui l'ha venduta. La monaca dice a Lucia che ha bisogno di un servizio, ovvero rivolgere una segreta ambasciata al padre guardiano del convento dei cappuccini che l'ha accompagnata lì la prima volta, cosa per la quale non può fidarsi di nessuno tranne che della giovane. Lucia è spaventata a una simile richiesta e l'idea di uscire dal monastero la atterrisce, ma Gertrude si finge indispettita da quelle scuse e afferma che si tratta di fare pochi passi lungo una via conosciuta, in pieno giorno, cosa per cui non c'è davvero grande pericolo. Lucia si lascia convincere e Gertrude la istruisce su cosa dovrà fare, suggerendole anche di non farsi vedere dalla fattoressa nell'uscire dal monastero o, tutt'al più, di dire che sta andando in una chiesa. Benché non del tutto persuasa, Lucia accetta l'incarico e si accinge a uscire dal chiostro, quando Gertrude è presa da un improvviso ripensamento e la richiama alla grata: qui però si limita a rinnovare le sue raccomandazioni alla giovane, la quale, ignara di quanto sta per succederle, esce inosservata dal convento.

F. Gonin, Lucia viene rapita
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F. Gonin, Lucia viene rapita

Il rapimento di Lucia

Lucia lascia il convento e ritrova senza difficoltà la porta del borgo, camminando rasente il muro e con gli occhi bassi, finché arriva alla strada maestra e poi a quella che conduce al convento dei cappuccini: essa è ancora ai tempi dell'autore affondata tra due pareti laterali orlate di vegetazione, che formano sopra di essa una specie di volta, cosicché la ragazza inizia a percorrerla non senza provare una certa inquietudine. Dopo pochi passi vede una carrozza da viaggio ferma, con due viaggiatori accanto ad essa che si guardano intorno, intenti a cercare la strada: la giovane si rincuora e si avvicina, quindi uno dei due uomini, con un atteggiamento più gentile di quanto non sia il suo aspetto, finge di chiederle un'indicazione sulla strada per Monza. Lucia inizia a spiegare che se vogliono andare in città devono percorrere la strada in senso inverso, ma mentre si volta per indicare la giusta direzione l'altro uomo (il Nibbio) la afferra per la vita e la solleva da terra, cacciandola poi a forza nella carrozza mentre Lucia emette un urlo disperato. Una volta nella carrozza, un bravo che siede davanti la costringe a sedere di fronte a lui e un altro le mette un fazzoletto alla bocca e la fa tacere, mentre anche il Nibbio monta sul veicolo. La carrozza riparte di gran carriera e il quarto uomo rimasto sulla strada, accertatosi che nessuno sia accorso al grido della ragazza, sparisce rapidamente tra la vegetazione (è uno sgherro d'Egidio, che dalla casa del suo padrone ha visto Lucia uscire dal convento ed è corso ad attenderla sulla strada imboccando una scorciatoia per tendere l'imboscata).

F. Gonin, La carrozza dei bravi
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F. Gonin, La carrozza dei bravi

Lucia nella carrozza col Nibbio e i bravi

Lucia è in preda al terrore e inorridita alla vista del volto minaccioso dei suoi rapitori: cerca di divincolarsi e di buttarsi verso lo sportello della carrozza, anche se le mani dei bravi la trattengono con forza sul fondo e le premono il fazzoletto sulla bocca, per soffocare le sue urla. I tre uomini cercano di calmarla dicendole di non volerle fare del male, ma dopo qualche istante, sopraffatta dall'affanno di quella situazione angosciosa, Lucia perde i sensi e uno dei bravi teme che sia morta, anche se il compare è certo che si tratti di un semplice svenimento e che, per uccidere una donna, ci voglia ben altro. Il Nibbio li richiama al loro dovere e ordina di prendere i fucili, tenendoli però ben nascosti per non mostrarli alla giovane e non intimorirla inutilmente, aggiungendo che, quando rinverrà, sarà lui a parlarle e a tenerla ferma.
La carrozza si inoltra in un bosco e poco dopo Lucia rinviene, quindi, dopo essersi resa conto della situazione, tenta di nuovo inutilmente di gettarsi verso lo sportello e poiché caccia un urlo il Nibbio la minaccia di usare ancora il fazzoletto per farla tacere. L'uomo tenta di placarla parlandole con voce calma, anche se la ragazza, terrorizzata, prega i suoi rapitori di lasciarla andare e il Nibbio ribatte che non vogliono ucciderla e che l'hanno rapita perché è stato loro ordinato, anche se ovviamente rifiuta di dire a Lucia chi è il loro mandante. La giovane, tra le lacrime, prega ancora i bravi di lasciarla andare e li esorta a pensare a quanto patirebbero le loro figlie o le loro mogli in una simile situazione, ma gli uomini le dicono che non possono liberarla e non le rivelano il luogo dove la stanno portando, al che la ragazza si rivolge in preghiera a Dio e inizia a sgranare il suo rosario. Lucia alterna in seguito nuovi scongiuri ai suoi rapitori e altri svenimenti, durante il lungo viaggio che dura in tutto più di quattro ore.

Gustavino, L'innominato e la vecchia
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Gustavino, L'innominato e la vecchia

L'innominato ordina alla vecchia di accogliere Lucia

Intanto l'innominato attende con una certa inquietudine il ritorno della carrozza al castello, cosa insolita in lui che, in passato, ha decretato la morte di tanti uomini senza un briciolo di esitazione e ora, di fronte al rapimento di una povera contadina, prova dentro di sé un ribrezzo e un terrore sconosciuti. Da una finestra del suo castello osserva uno sbocco della valle e qui vede a un tratto spuntare la carrozza, che avanza lentamente a causa della stanchezza dei cavalli: sente aumentare la sua ansia e vorrebbe quasi ordinare al Nibbio, tramite uno dei suoi bravi, di voltare il passo e raggiungere subito il palazzo di don Rodrigo. Tuttavia un richiamo interiore lo distoglie da quel proposito e, per non attendere senza far nulla, manda a chiamare una vecchia donna che vive nel castello da quando è nata e che è cresciuta nella concezione del potere e della malvagità del suo padrone, quindi con la volontà assoluta di obbedire i suoi ordini. Avvezza ad accettare tutto ciò che avviene in quel luogo funesto, ha sposato uno degli sgherri dell'innominato che è poi rimasto ucciso in un'azione, lasciandola vedova nel castello ad occuparsi degli altri bravi (la donna rattoppa i loro cenci, prepara da mangiare e cura alla meglio i feriti, ricevendo in cambio insulti e improperi cui lei solitamente risponde in modo ancor più feroce e irridente).
Appena la vecchia giunge dal padrone, questi le indica la carrozza che si avvicina al castello e le ordina di allestire subito una portantina e di farsi portare alla Malanotte, badando di arrivare prima della carrozza: in essa c'è (o ci dovrebbe essere) una giovane, quindi la vecchia dovrà ordinare al Nibbio di metterla sulla portantina e di venire subito dall'innominato, mentre la donna dovrà accompagnare la ragazza al castello e condurla nella sua camera. L'uomo raccomanda alla vecchia di non rivelare il suo nome alla giovane e, soprattutto, le ordina di farle coraggio: la vecchia sembra non capire cosa debba dire alla prigioniera, al che l'innominato si irrita e le ingiunge di dire alla ragazza le parole che lei stessa vorrebbe sentire in un simile frangente, mandandola poi via con impazienza. La vecchia corre ad eseguire gli ordini e l'innominato, rimasto solo, guarda per un po' la carrozza dalla finestra e poi inizia a percorrere la stanza a passi nervosi.


Temi principali e collegamenti

- La descrizione iniziale del castello dell'innominato è uno dei passi più celebri del romanzo e mostra il luogo sinistro come il "nido di aquila" in cui il bandito vive nella sua solitudine feroce e come una fortezza inespugnabile dove l'uomo consuma i suoi delitti senza avere nessuno sopra di sé, dominando anche fisicamente la regione circostante. È stato osservato che la tana del potente bandito suscita un'impressione ben più imponente del modesto palazzo di don Rodrigo, descritto nel cap. V come un piccolo fortilizio dall'aspetto trasandato e decadente.

- I nomi dei bravi che accompagnano don Rodrigo sono molto espressivi e ad alcuni critici ricordano quelli dei demoni Malebranche che compaiono nei canti XXI-XXII dell'Inferno dantesco: il Tiradritto aveva già accompagnato il Griso a Monza, mentre lo Squinternotto ("squinternato") e il Tanabuso (deformazione dialettale di "tarabuso", un uccello rapace) compaiono in alcune gride del XVII secolo.

- Il colloquio tra don Rodrigo e l'innominato è riassunto in un sintetico discorso indiretto, mentre nel Fermo e Lucia era assai più ampio e infarcito di termini spagnoleggianti con cui il signorotto lusingava il potente alleato, e ai quali l'uomo rispondeva con un atteggiamento di sprezzante superiorità: la scena, piuttosto forzata e poco convincente sul piano narrativo, venne quasi del tutto eliminata nella redazione definitiva del romanzo (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo).

- Apprendiamo che Egidio, l'amante di Gertrude già protagonista dell'assassinio della conversa narrato nel cap. X, è complice dell'innominato e ciò risulterà decisivo nel convincere la "Signora" a tradire Lucia e consegnarla nelle mani dei suoi rapitori: come già in precedenza, viene sottolineato il carattere debole della monaca, la quale, pur inorridita all'idea di fare del male alla ragazza, non riesce ad opporsi al suo amante e maestro di delitti, alla cui "scola infernale" ha imparato a mentire e ingannare chi si fida di lei (delicata e terribile la similitudine con il pastore che accarezza la pecora prima di consegnarla al macellaio, che qualifica Lucia come personaggio puro e innocente a fronte della perversità di Gertrude). Rispetto al Fermo e Lucia, in cui il dialogo con Egidio era narrato con abbondanza di particolari e riferimenti al delitto della suora, qui esso è riassunto in una frase ("le impose... il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia") e lo stesso delitto è accennato con una velata allusione. Per approfondire: A. Zottoli, La debolezza di Gertrude.

- Il vero protagonista dell'episodio è l'innominato, già preda di dubbi e angosce prima di incontrare don Rodrigo e poi sempre più incerto sul compimento di quest'impresa scellerata, che è sul punto di abbandonare più volte (l'autore prepara il terreno alla crisi di coscienza e al ravvedimento dei capp. successivi, che sarebbero poco credibili se non fossero il frutto di una lenta maturazione interiore). L'uomo è tormentato soprattutto dall'idea della morte inevitabile, che diventa quasi la costante di tutti i suoi pensieri (anche la carrozza che osserva dalla finestra è detta avanzare "col passo della morte") e insinua in lui il timore di un giudizio divino che sente come ineluttabile.
Entra in scena il Nibbio, il luogotenente dell'innominato cui il bandito affida il compito di rapire Lucia e che avrà una parte non secondaria nell'aggravare i dubbi morali del suo padrone (cap. XXI). Già durante il rapimento mostra un lato "umano" sconosciuto agli altri bravi, cercando di rincuorare Lucia come poi farà lo stesso innominato.

- Il personaggio della vecchia è forse una delle "macchiette" più riuscite del romanzo ed è, al tempo stesso, una delle figure più negative e odiose: servile e sottomessa al suo padrone, ha perso qualunque remora di tipo morale e mostra un egoismo e un attaccamento alle cose materiali senza pari, specie quando si renderà conto che l'innominato prova compassione per Lucia (è talmente grottesca nei suoi atteggiamenti che non solo non farà coraggio alla giovane come le è stato ordinato, ma le incuterà ancora più timore).

Il ratto di Proserpina (an. XVIII sec.)
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Il ratto di Proserpina (an. XVIII sec.)

Il rapimento dell'eroina, topos della letteratura classica e moderna

Il rapimento di Lucia è il fatto saliente intorno a cui ruota tutto il cap. XX e ha un'importanza decisiva nello svolgersi delle vicende del romanzo, dal momento che dall'esito di quest'azione dipende la conclusione positiva o negativa dell'intreccio, potendo soddisfare o meno la malvagia volontà di don Rodrigo (in realtà proprio l'incontro con la giovane toccherà il cuore dell'innominato e lo indurrà sulla strada della redenzione, facendo sì che il bene inizi a prevalere sul male). È ovvio che il topos del rapimento della fanciulla innocente ad opera di un malvagio prevaricatore non è invenzione del Manzoni ma giunge a lui attraverso una tradizione più che secolare, che ha le sue origini in celebri episodi del mito classico come il ratto di Europa e di altre figure femminili ad opera di Giove, nonché in quello di Proserpina compiuto dal dio degli inferi Plutone: in tutti i casi si tratta di fanciulle indifese vittime di un gesto brutale di prepotenza sessuale, in particolare Proserpina che Ovidio nelle Metamorfosi (V, 385 ss.) presenta poco più grande di una bambina, strappata crudelmente alla madre Cerere mentre è intenta a cogliere fiori in un prato, il che sembra una chiara allusione al timore dei popoli antichi che le giovani figlie venissero rapite da predoni stranieri durante le loro scorribande (pericolo un tempo estremamente concreto). Lo stesso motivo è in fondo richiamato anche dalla leggenda del ratto delle Sabine compiuto dai Romani, mentre la storia dell'antica Roma è ricca di episodi simili in cui un malvagio tiranno si innamora perdutamente di una fanciulla povera e vuole ad ogni costo farla sua: ne è un esempio la vicenda di Virginia, la giovane plebea vittima della persecuzione del decemviro Appio Claudio che mette in piedi un'incredibile macchinazione pur di riuscire a sedurla, spingendo alla fine il padre della ragazza a ucciderla per sottrarla alle mire infami del dominatore e preservare così intatto l'onore della figlia (il fatto è narrato da Tito Livio negli Ab Urbe condita libri, III, 44 ss. e diventerà la trama anche della tragedia Virginia, scritta da Vittorio Alfieri tra il 1777 e il 1783).
Dalla tradizione classica il motivo si trasferisce nel moderno romanzo europeo, in cui sono numerosi gli esempi di masnadieri che insidiano la virtù di giovani e delicate fanciulle e ricorrono non di rado all'abusato stratagemma del rapimento: esempio tipico è quello di Pamela (la protagonista dell'omonimo romanzo di S. Richardson del 1741), giovane orfana perseguitata dallo squire Belfart che vuole a tutti costi possederla e ne organizza infatti il rapimento, anche se la ragazza riuscirà a redimerlo e a sposarlo, mentre lo stesso autore nel romanzo Clarissa (1748) narra le malefatte di un libertino, Lovelace, che si incapriccia di una giovane virtuosa e la rapisce, costringendola poi a lunghe tribolazioni che ne causano la morte. Anche il romanzo "gotico" del XIX secolo è pieno di angeliche fanciulle preda di oscuri persecutori che si rifanno ai personaggi del marchese De Sade, mentre si può dire che il tema diventi pressoché dominante in certa letteratura di "consumo" del primo Ottocento, per cui Manzoni, nel costruire il personaggio di Lucia come quello di una giovane perseguitata, attinge a una lunga e consolidata tradizione, benché egli apporti un contributo di indubbia originalità e innovazione. Anzitutto Lucia non è vittima di un tiranno oscuro e terribile, preda a sua volta di una passione irrefrenabile, bensì di un modesto signorotto di campagna che ha fatto una scommessa col cugino e vuole "spuntare l'impegno" per una questione di puntiglio cavalleresco, per non perdere la faccia e compromettere la sua reputazione di seduttore; non è lui, inoltre, a organizzare il rapimento della giovane, bensì un bandito che risponde assai di più al prototipo del tiranno persecutore della tradizione classica e moderna, salvo il fatto che l'innominato agisce su mandato di don Rodrigo e non è innamorato di Lucia, ne sarà anzi toccato a tal punto da imboccare la strada della redenzione sulla quale era spinto già dai suoi dubbi morali. Lo scrittore vuole in un certo senso svilire il motivo letterario del "ratto" della giovane onesta e ricondurlo a una dimensione assai più modesta e provinciale, in accordo con la poetica della reticenza che domina la narrazione e tace gli elementi più morbosi e attraenti del male, per non suscitare eccessivo interesse nel lettore; lo stesso "romanzo nero" di Gertrude ed Egidio è in fondo appena accennato, senza mai mostrare direttamente sulla scena gli amanti sacrileghi e lasciando intuire in modo velato la trama di delitti che la relazione clandestina scatena (essa incrocia la vicenda di Lucia e rende possibile il suo rapimento, anche se ciò è detto con un'allusione a malapena percettibile). Lo stesso innominato, del resto, è sì il tipico personaggio malvagio della tradizione romanzesca ed è descritto con gli attributi di una figura sinistramente cupa, tuttavia non è mai presentato direttamente nell'atto di compiere il male e in lui prevale decisamente l'aspetto del dubbio morale, dell'angoscia che prefigura la successiva redenzione in cui proprio il rapimento di Lucia avrà un ruolo essenziale, quindi il motivo letterario viene in qualche modo rovesciato e mostrato come lo strumento con cui la Grazia divina interviene nelle vicende terrene. Manzoni si rifà in modo palese alla tradizione precedente di cui, peraltro, ha una conoscenza assai profonda, e tuttavia essa viene reinterpretata e rimodulata alla luce della particolare visione del mondo dello scrittore, che non vuole narrare una torbida vicenda di passioni e delitti finalizzata all'intrattenimento del pubblico, bensì educare il lettore alla fiducia nella Provvidenza divina: la figura dell'innominato è funzionale a questo scopo e viene mostrata come quella del feroce masnadiero che si converte e diventa un raro esempio di umiltà e virtù, vicenda originalissima che è resa possibile proprio dall'abusato motivo del rapimento dell'indifesa fanciulla e che, tuttavia, appare molto lontano dai modelli letterari che sicuramente Manzoni aveva sotto gli occhi nel momento della composizione del romanzo (ciò indica che la conversione del bandito è assai meno "di maniera" e scontata di quanto non sia sembrato a certi critici del passato, essendo frutto di una rielaborazione letteraria tutt'altro che banale e assai innovativa nei suoi esiti artistici).
Immagine

Clicca qui per ascoltare l'audio del capitolo dal sito www.liberliber.it
(voce narrante di Silvia Cecchini).
Capitolo XX
Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati [1]. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggiante; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.
Al rumore d’una cavalcatura che s’avvicinava, comparve sulla soglia un ragazzaccio, armato come un saracino; e data un’occhiata, entrò ad informare tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di tegoli. Colui che pareva il capo s’alzò, s’affacciò all’uscio, e, riconosciuto un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d’un peso inutile, e salir più lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell’erta non era permesso d’andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso, dicendogli: - voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po’ allegri con questa brava gente -. Cavò finalmente alcuni scudi d’oro, e li mise in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo, cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero coi tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.
Un altro bravaccio dell’innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e s’accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quant’altri avrebbe incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto (lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane [2], e in ognuna delle quali c’era di guardia qualche bravo; e, dopo avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’innominato.
Questo gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse da lui, per quanto fosse de’ più vecchi e provati amici. Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e di animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo, né invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L’innominato che ne sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de’ tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a esagerare le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!... A questo, l’innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. Prese l’appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don Rodrigo, dicendo: - tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare.
Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato: perciò questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola. Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. “Invecchiare! morire! e poi?” E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione [3] indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però [4]. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento [5]. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a se stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer se stesso ch’era ancor quello.
Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero condotto a scomparire [6] in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse Egidio dell’impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l’aspettasse, con la risposta d’Egidio: che l’impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest’annunzio, l’innominato, comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla spedizione.
Se per rendere l’orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far conto de’ soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una promessa così decisa. Ma, in quell’asilo stesso dove pareva che tutto dovesse essere ostacolo, l’atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui. Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che un primo passo in una strada d’abbominazione e di sangue [7]. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell’innocente che aveva in custodia.
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il giorno stabilito; l’ora convenuta s’avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell’ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima.
- Ho bisogno d’un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a’ miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand’importanza, che vi dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de’ cappuccini che v’ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche necessario che nessuno sappia che l’ho mandato a chiamare io. Non ho che voi per far segretamente quest’imbasciata.
Lucia fu atterrita d’una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto... Ma Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che, quand’anche non l’avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva sbagliare!... Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: - e bene; cosa devo fare?
- Andate al convento de’ cappuccini: - e le descrisse la strada di nuovo: - fate chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
- Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m’ha mai vista uscire, e mi domanderà dove vo?
- Cercate di passare senz’esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l’anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: - e bene; anderò. Dio m’aiuti! - E si mosse.
Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: - sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: - fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto -. Lucia partì.
Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l’indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n’uscì, andò tutta raccolta e un po’ tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt’ora, affondata, a guisa d’un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que’ due, che diceva: - ecco una buona giovine che c’insegnerà la strada -. Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse: - quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
- Andando di lì, vanno a rovescio, - rispondeva la poverina:
- Monza è di qua... - e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse [8], a sedere dirimpetto a sé: un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In tanto il Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera. L’altro che le aveva fatta quella domanda traditora, rimasto nella strada, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c’era nessuno; saltò sur una riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno sgherro d’Egidio; era stato, facendo l’indiano, sulla porta del suo padrone, per veder quando Lucia usciva dal monastero; l’aveva osservata bene, per poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto convenuto.
Chi potrà ora descrivere il terrore, l’angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di que’ visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza; quattro altre manacce ve l’appuntellavano. Ogni volta che aprisse la bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre bocche d’inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan ripetendo: - zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male -. Dopo qualche momento d’una lotta così angosciosa, parve che s’acquietasse; allentò le braccia, lasciò cader la testa all’indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l’occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s’abbandonò, e svenne.
- Su, su, coraggio, - diceva il Nibbio. - Coraggio, coraggio, - ripetevan gli altri due birboni; ma lo smarrimento d’ogni senso preservava in quel momento Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
- Diavolo! par morta, - disse uno di coloro: - se fosse morta davvero?
- Oh! morta! - disse l’altro: - è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io so che, quando ho voluto mandare all’altro mondo qualcheduno, uomo o donna che fosse, c’è voluto altro.
- Via! - disse il Nibbio: - attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro. Tirate fuori dalla cassetta i tromboni [9], e teneteli pronti; che in questo bosco dove s’entra ora, c’è sempre de’ birboni annidati. Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce [10] per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s’era inoltrata nel bosco.
Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, - via, - le disse, più dolcemente che poté; - state zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star noi.
- Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m’avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
- Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
- No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
- Vi conosciamo noi.
- Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete voi? Perché m’avete presa?
- Perché c’è stato comandato.
- Chi? chi? chi ve lo può aver comandato?
- Zitta! - disse con un visaccio severo il Nibbio: - a noi non si fa di codeste domande.
Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, - oh - diceva: - per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.
- Non possiamo.
- Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? ...
- Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr’ore; e dopo il quale avremo altre ore angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove l’infelice era aspettata.
Era aspettata dall’innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un’alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de’ cavalli. E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle carrozzine che si dànno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte.
“Ci sarà? - pensò subito; e continuava tra sé: - che noia mi dà costei! Liberiamocene”.
E voleva chiamare uno de’ suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una sua vecchia donna.
Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de’ suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall’istruzioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran male e del gran bene. L’idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co’ sentimenti d’un rispetto, d’un terrore, d’una cupidigia servile, s’era associata e adattata a quelli. Quando l’innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell’uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s’era avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e sfrenata d’un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l’ossa sur una strada, e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l’orgoglio di trovarsi sotto una tal protezione. D’allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servizio particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l’uno ora l’altro, le davan da fare ogni poco; ch’era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran conditi di beffe e d’improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n’attaccava, variavano secondo le circostanze e l’umore dell’amico. E colei, disturbata nella pigrizia, e provocata nella stizza, ch’erano due delle sue passioni predominanti, contraccambiava alle volte que’ complimenti con parole, in cui Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de’ provocatori.
- Tu vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell’occhiaie.
- Fa allestir subito una bussola [11], entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c’è... ci dev’essere... una giovine. Se c’è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me. Tu starai nella bussola, con quella... giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non...
- Oh! - disse la vecchia.
- Ma, - continuò l’innominato, - falle coraggio.
- Cosa le devo dire?
- Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que’ momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va.
E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzo al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso.


Note
1. Il Ducato di Milano e il Bergamasco, che all'epoca faceva parte della Repubblica di Venezia.
2. Aste con in punta un ferro a forma di mezzaluna.
3. Giustizia.
4. Io esisto, però.
5. Che prima o poi giungerà a compimento.
6. A fare cattiva figura.
7. Allusione, fin troppo velata, all'assassinio della conversa (cap. X).
8. Strillasse, gridasse.
9. Schioppi dalla canna corta e grossa, simili a trombe.
10. Perde i sensi.
11. Una portantina.


fonte: http://promessisposi.weebly.com/capitolo-xx.html

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